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“The Ascension”: se non vi piace il nuovo disco di Sufjan Stevens non avete capito niente

Esauriente, denso e dettagliato. L’elettro-opus di Sufjan Stevens è un altro enorme salto artistico che parla chiaro alle emozioni complicate e ai tentativi di ricostruire il suo suono da zero, il che, ovviamente, non è una novità.

Per il suo nono album solista, The Ascension, Sufjan ha scritto un confessionale pop contemporaneo che suona in modo diverso da qualsiasi cosa abbia mai fatto prima, incorporando schizzi di EDM, R&B e synth anni ’80 e ’90. La maggior parte dell’album è stata registrata con una drum machine e diversi sintetizzatori mentre le più caratteristiche attrezzature di Stevens – chitarre acustiche e banjo – sono state deposte in magazzino durante il trasloco dalla sua vecchia casa di Brooklyn per un posto più panoramico e remoto nelle Catskills. Consapevolmente o meno, le nuove canzoni seguono un viaggio altrettanto pittoresco, uscendo dalla routine quotidiana e passando a quel tipo di ritornelli che sono diventati dei cliché della musica più mainstream.

Anche la struttura della scrittura è nuova: dove una volta le canzoni di Stevens si sono sollevate e sono ricadute con fioriture organiche e silenzi, in The Ascension pulsano a un ritmo costante guidato dalla macchina, dove una volta si sentivano come mini-sinfonie in più parti, qui spesso si divertono nel loro vuoto.

Senza dubbio, per lo sgomento di alcuni fan, l’album vede Stevens riconciliarsi con il pop, proponendo brani che non suonerebbero fuori posto in una playlist di Spotify  “Sad dance” del 2020. Vero anche che in molti momenti evoca la musica elettronica degli anni Ottanta e Novanta, dai Depeche Mode su Video Game, ai Nine Inch Nails sui più noiosi Ativan e Gilgamesh, fino ai Pet Shop Boys su forse il mio brano preferito, Goodbye to All That (per alcuni anche il più tamarro).

La title track è probabilmente una delle migliori canzoni che Sufjan Stevens abbia mai scritto. Accompagnandosi alla tastiera con una melodia triste e pulsante, Stevens usa un linguaggio preciso ed empatico per affrontare la fede e la disperazione, il rimpianto e le rivelazioni. È l’unica canzone dell’album che si inserisce perfettamente nella sua comfort zone, in cui le domande sulla vita e sulla morte sono intime come le strofe di una canzone d’amore.

In alcuni brani si atterra su qualcosa di magico e la scrittura trascende, come negli ultimi 60 secondi di Tell Me You Love Me, e di nuovo in Landslide, quando Sufjan piange il titolo in un gorgheggio disperato, incorporando la sua stessa voce nell’arrangiamento come un campione.

Infine una menzione speciale per America. Molti pensavano che il singolo di 12 minuti fosse un rimprovero a Dio, ma il cantautore ha chiarito che doveva essere “una canzone di protesta politica, in particolare sull’America”. Quando canta, “Don’t do to me what you did to America“, non parla al creatore, bensì a un popolo che divinizza la celebrità e che offusca il confine tra intrattenimento e governo.

Quanta bella malinconia. Bentornato Sufjan.

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Cinefila e musicofila compulsiva. Quando qualcosa mi interessa non riesco a tacere.

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