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Reportage Live

Sanguina, ti prego. Il concerto di BEN HARPER & THE INNOCENT CRIMINALS a Milano, tra rituale e ritualità

Mr Harper non ero degna di partecipare alla Sua messa dell’11 luglio al Magnolia, soprattutto se accompagnato da John Butler (senza trio), ma tu hai cantato e io mi sono salvata. Cronaca di un rituale collettivo atteso che bisognerebbe celebrarsi periodicamente, come a Natale.

Ben Harper - Milano 2019 | Foto di Eleonora Stevani

Articolo di Marzia Picciano

Cos’hanno in comune la religione e Ben Harper & The Innocent Criminals? Parecchie cose, provo a dirne qualcuna. Innanzitutto: sono una religione. L’ormai 53enne di Claremont, California, come un profeta annuncia a suon di slide bar la buona novella sul suo lap-steel, la scaletta e’ la liturgia della parola, nelle sessioni di virtuosismi distorti si arriva alla comunione (spoiler: sono nata e cresciuta in un ambiente cattolico, amen). Pertanto non e’ sbagliato dire che il concerto dell’11 luglio al Circolo Magnolia di Milano, grazie alla profonda fede di Barley Arts, e’ stata una specie di messa (che verra’ ripetuta in Italia il 12 a Villafranca di Verona, il 13 all’Umbria Jazz di Perugia, il 15 a Tarvisio per No Borders Festival e il 16 luglio ultimo appuntamento a Sarzana), in questo caso volta a presentare la personalissima country-side omelia di Wide Open Light, risposta alla poetica politica in onore del compianto Juan Nelson di Bloodline Maintenance. In realtà è anche di più di una messa.

BEN HARPER

La religione del Signor Harper e dei suoi criminali senza macchia (Leon Mobley, Oliver Charles, Chris Joyner, Alex Painter, Darwin Johnson) affonda le radici nel profondo multiculturalismo della sua storia personale e famigliare. Per l’artista americano non era possibile non divenire un musicista estremamente colto e raffinato, benedetta California che offre posto a tutti per essere tutto quello che si vuole e si puo’ essere. Non a caso, in 16 album e tre Grammy Harper e soci hanno portato avanto un credo, essere sempre e mai uguali a se stessi, quindi quando sentiamo Marley, ritroviamo la Chapman, odoriamo Dylan ma anche gli Zeppelin, Springsteen… insomma un po’ tutti, apprendiamo della bravura di questi incredibili musicisti nel saper attingere a tutto per fare qualcosa di proprio, autentico.

E questo chiaramente i fan lo sanno, accorsi numerosissimi a prendersi tutte le zanzare dell’Idroscalo pur di partecipare a un rituale ben noto. Non parliamo qui di visioni epifaniche o misticismi. E’ stato il mio primo concerto di Ben Harper & The Innocent Criminals (vergogna mia, lo so) e raccomanderei di averne almeno uno ogni anno, come la vigilia di Natale. Possibilmente con meno vociare di ieri, ma con lo stesso amore nella voglia di esserci, quella con cui si festeggia qualcosa di bello e incredibilmente unificante, appunto come quando torni dai tuoi per le feste. Perche’ sicuramente quella di Harper e’ la religione di “casa”.

Ben Harper – Milano 2019 | Foto di Eleonora Stevani

JOHN BUTLER

Ad aprire questo nugolo di trepidante attesa, John Butler, l’australiano a capo dell’omonimo Trio: e’ il caso di dirlo, congiunzione astrale. Sul suo palco strumenti raccolti nel centro e lui, biondo (bellissimo, non possiamo negarlo) e intenso, inizia con un a solo vibrato di drum sticks su Cold Wind per poi lanciarsi in una intimissima Faith seguita dalla nostalgica storia di perdita di  Miss Your Love, in cui si lascia andare a un commento decisamente azzeccato per i nostri tempi: gli uomini di oggi non sono tali,  sono solo “boys in a men’s body” – e noi siamo d’accordo John, la mascolinità tossica ci ucciderà (a noi donne). Quello di Butler, che pure ha portato sul palco perlopiù pezzi della band, come la groovissima Zebra, il banjo di Better Than, la ballata caravan di Home per poi concludere con la strumentale, eterna Ocean, è un concert(in)o a parte, meriterebbe una sezione in più. Del resto Harper lo richiama verso la fine a suonare insieme il lap steel su Fated. Tra un rombo e l’altro di chitarre e batterie rock, trovano il tempo di giocare a rispondersi in una sessione di amorosi sensi, solo lui e John, una conversazione di cui a un certo punto percepiamo non essere parte, troppo alta, troppo “loro”, il farfallino delle menti alte e noi attoniti, un po’ invidiosi, in attesa.

Sentimenti piu’ che giustificati se si pensa a questo artista, una vita a transcendere generi musicali per fare politica, fare inclusione, definire un linguaggio comune per il mondo a cui appellarsi nei momenti di sconforto. Harper e il suo iconico cappello arancione sono figura ieratica e solida come solo sono certi credi radicati; mentre comincia ad educare la folla con Better Way, introduce subito con un a capella e organetto Diamons On The Inside, passa alla blues ballad Don’t Give Up On Me e Say You Will, alterna il country allegro di Steal My Kisses al groove di Need To Know The Basis (e prima Mama’s Trippin). Ma ecco che Harper cede il passo a conversazioni solitudinarie, nella lunga sessione che inanella Walk Away e Power of Gospel, due preghiere di disperazione e redenzione, del dover passare un altro giorno nella perdita, e del potere curativo della musica, che funziona sempre, come anche mi insegnava un mio amico. Da questo momento in poi siamo nel cuore dei movimenti interiori di Harper: la lunga sessione strumentale che mischia sempre lei, la ben nota chitarra hawaiana, da sound da prateria al crepuscolo a ritmi da quadriglia sirtakata, porta all’unica traccia di Wide Open Light suonata, la ballata black country Giving Ghosts. Si esce a rivedere le stelle in punta di piedi con She’s Only Happy In The Sun.

Ben Harper – Milano 2019 | Foto di Eleonora Stevani

Concluderanno (dopo la sessione con Butler) in modo più celebrativo, le iconiche Burn One Down e il tributo reggae With My Own Two Hands, intermezzate dalla disperata Please Bleed, non prevista inizialmente ma richiesta da pubblico, un momento di ritorno alle origini, quelle di ricerca della propria mortale, per se e per gli altri, umanità. Ed è proprio questo il senso dietro il mondo delle immagini di Harper, dietro il sacerdote che si e’ fatto lui stesso delle sofferenze quotidiane e storiche degli uomini; non uno di quelli che predica cose lontane o altre vite. Quella di Harper è la parola dell’oratorio della crisi sociale che viviamo. Non c’è spazio per personalismi, non nella gioia e di certo nemmeno nel dramma, è tutto condiviso, e in realtà è davvero cosi, ce lo dice quella voce stupenda e avvolgente che abbiamo ascoltato ieri e che vorrei fosse anche la mia voce interiore. E quando fa male, bisogna andare oltre, andare via o semplicemente andare. Tornare a reimmergerci nella comunità. E lottare per l’altro.

BEN HARPER – la scaletta del concerto di Milano

1. Better Way
2. Diamonds on the Inside
3. Don’t Give Up on Me Now
4. Finding Our Way
5. Say You Will
6. Mama’s Trippin’
7. Steal My Kisses / Need to Know Basis
8. Walk Away
9. Power of the Gospel
10. Instrumental
11. Giving Ghosts
12. She’s Only Happy in the Sun
13. Burn One Down
14. Faded  (with John Butler)

Encore:
15. Please Bleed
16. With My Two Hands

JOHN BUTLER – la scaletta del concerto di Milano

Cold Wind
Faith
Miss Your Love
Better Than
Treat Yo Mama
Zebra
Wade in the Water
Ocean

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Dall’Adriatico centrale (quello forte e gentile), trapiantata a Milano passando per anni di casa spirituale, a Roma. Di giorno mi occupo di relazioni e istituzioni, la sera dormo poco, nel frattempo ascolto un sacco di musica. Da fan scatenata della trasparenza a tutti i costi, ho accettato da tempo il fatto di essere prolissa, chiacchierona e soprattutto una pessima interprete della sintassi italiana. Se potessi sposerei Bill Murray.

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