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Reportage Live

POLYPHIA + Johan Lenox all’Alcatraz di Milano: tecnicità statica

Foto di Davide Merli | Articolo di Giulio Taminelli

Parto da una premessa: sono profondamente convinto che i Polyphia rappresentino in pieno i valori dell’ultimo decennio musicale, ovvero un enorme dito medio alzato nei confronti di barriere di genere d’esecuzione diventate fortunatamente un retaggio del passato. Esplosi grazie alla rete, dichiaratamente ispirati da musica elettronica e hip hop, inseriti a forza in un prog rock che anno dopo anno sta sempre più stretto e caratterizzati in stile j-pop. Una summa di elementi visivi e uditivi in grado di piazzarli di diritto tra le band strumentali più note degli ultimi anni.

Questo però è l’impressione che internet e in generale l’approccio alla registrazione da parte della band ha dato ai fan. Ciò che veramente farà la differenza in questo live all’Alcatraz di Milano sarà la capacità (o meno) di trasmettere al pubblico le stesse sensazioni regalate in cuffia e nei vari video disseminati su ogni piattaforma mainstream.
Per questo tour, di fatto voluto per presentare al pubblico europeo i pezzi del nuovo ed eclettico album Remember That You Will Die, i Polyphia scelgono l’altrettanto eclettico Johan Lenox, artista divenuto noto per l’aver bizzarramente mescolato basi e cantato trap a sonorità tipiche della musica classica da sala.

Inutile girarci intorno: a prescindere dalla qualità tecnica dei musicisti, la serata risulta interessante già dalle premesse.

Johan Lenox

Produttore di grande talento con la possibilità di vantare collaborazioni con nomi del calibro di Kanye West e i Polyphia, Johan Lenox porta sul palco nei circa quaranta minuti a sua disposizione tutte le sonorità che lo hanno reso celebre negli anni. Cantato trap alle volte carico di autotune e distorsione che si muove su basi di pianoforte ed archi, armonizzate per rendere sia l’idea della musica classica, sia di quella di un ritmato vagamente in stile Dubstep.

Nonostante di per sé l’esibizione segua la traccia tipica del concerto rap tradizionale, ovvero con cantante nel centro del palco e dietro un dj a selezionare ed elaborare le basi, stupisce la presenza sul lato sinistro di una coppia d’archi di buon livello che, oltre alle semplici note lunghe d’accompagnamento che ci si aspetterebbe dalla circostanza, alle volte spingono su pizzicati e melodie complesse (sino ad arrivare ad uno stupendo quanto a tratti logorante momento strumentale di oltre dieci minuti totalmente dedicato a loro).

Al di fuori di questi dettagli, per l’intera esibizione ho avuto la netta sensazione di star assistendo ad un mero esercizio di stile senza nessun reale spunto. Insomma, tanto rispetto per la varietà sonora portata sul “palco grande” dell’Alcatraz e per la voglia di intrattenere il pubblico ma credo, per via della poca presenza scenica e per la troppa semplicità visiva dell’intera esibizione, che Johan Lenox abbia ancora parecchia strada da fare per poter presentare uno show completo e di qualità.

Polyphia

Quello che accoglie i Polyphia è un Alcatraz pieno come non lo si vedeva da tempo.

Ammetto di essermi divertito parecchio, dalla mia postazione al bancone del bar, ad assistere ai tentativi degli ultimi arrivati di infiltrarsi nelle prime file per poi venire irrimediabilmente rimbalzati dai fan appostati sin dall’apertura dei cancelli.
Altro momento esaltante è stato quando, durante la riproduzione in cassa di Have You Ever Seen the Rain dei Creedence Clearwater Revival, il vociare del pubblico ha cominciato a seguire il ritmo della canzone, segno che praticamente tutta la sala stava bisbigliandone inconsciamente il testo.

In ogni caso, tutti questi piccoli momenti si sono interrotti quando, dal buio, sono apparsi i Polyphia proponendo quel dedalo di melodie e tempi composti che è Genesis.
Sarò onesto: sono rimasto impressionato dalla precisione esecutiva live.

Musicalmente fuori scala al punto da far passare in secondo piano i problemi tecnici avuti da LePage durante l’intero primo pezzo.

Polyphia in concerto all’Alcatraz di Milano. Foto di Davide Merli per www.rockon.it

Parlando di LePage, non posso che ammirare le sue qualità da frontman. Riuscire ad intrattenere vocalmente il pubblico in un concerto strumentale è una qualità tanto rara quanto preziosa. Ovviamente, il dover suonare “a bocca chiusa” permette di risparmiare fiato e quindi urlare ogni volta che ne si ha voglia, ma la capacità di “esaltare” i fan a comando è una cosa che pochi frontman riescono a fare propria.

Anche se, a onor del vero, c’è da dire che se sulla presentazione di 40 Oz avessi un Tim Hanson che “swippa” in favore del pubblico, anche io potrei dire la mia come frontman.

Polyphia in concerto all’Alcatraz di Milano. Foto di Davide Merli per www.rockon.it

D’altra parte, difficilmente si riesce ad incontrare un pubblico così responsivo. 
Per dare un’idea del legame raggiunto dai Polyphia con i propri fan, durante Champagne, l’intera sala ha intonato in coro la traccia di chitarra del ritornello (abbastanza complessa da poter essere considerata un assolo per molto chitarristi legati al rock tradizionale).

Il concerto prosegue senza sosta, con Reverie e The Audacity che vengono eseguite praticamente senza stacco (al di fuori della presentazione) ma, arrivati alla fine “canonica” dell’esibizione rappresentata dall’immensa Playing God (che bella, davvero), diventa chiaro il fatto che questa sera i Polyphia non oseranno.

Uscendo per un secondo da quella che è la mera cronaca del concerto, speravo che con il tour dedicato a Remember That You Will Die, album che di fatto rappresenta un enorme cambio di passo nelle sonorità della band con la reale aggiunta di elementi mutuati da altri generi musicali, anche i live si sarebbero fatti più eclettici.

In realtà, ciò a cui ho assistito è stato un ottimo concerto splendidamente eseguito in cui però l’unica forma di spettacolo data è stata quella dell’esecuzione di canzoni note al pubblico e che ne non comportassero troppi cambi di strumentazione.

Polyphia in concerto all’Alcatraz di Milano. Foto di Davide Merli per www.rockon.it

I tre bis, in cui LePage ha chiamato per qualche motivo non meglio specificato un Wall of Death, offrono maggiore spettacolo, grazie anche ad un piccolo pezzo “rappato” su 96 Quite Bitter Beings e un po’ più di carica sul palco, però la sensazione all’uscita rimane quella di aver visto un concerto votato al risparmio energetico.

Un’ora e venti di concerto contando anche i bis, poco movimento sul palco, cambi di sonorità e strumentazione ridotti al minimo (e chiunque conosca la discografia dei Polyphia sa quanta varietà potrebbero avere) hanno di fatto trasformato quello che poteva essere un concerto innovativo sotto molti punti di vista nel solito concerto prog pieno di virtuosismi ma con poca anima. 

Clicca qui per vedere le foto del concerto dei Polyphia all’Alcatraz di Milano o sfoglia la gallery qui sotto:

Polyphia

La Scaletta del concerto dei Polyphia all’Alcatraz di Milano

Genesis
Neurotica
O.D.
Goose
40oz
Icronic
Champagne
All Falls Apart
Drown
The Worst
Reverie
The Audacity
Playing God

Encore:
G.O.A.T.
96 Quite Bitter Beings
Euphoria

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