Articolo di Serena Lotti
I Rival Sons sono arrivati a Milano, nella loro unica data italiana, per presentare l’ultimo disco “The Darkfighter” uscito il 2 giugno per Atlantic Records. La rock blues band californiana guidata dal carismatico Jay Buchanan, a distanza di quattro anni da “Feral Roots” del 2019 ci presenta il settimo disco che, secondo una loro originale visione estetica, rappresenta la mitosi culturale dell’isolamento, della pandemia e della perdita ma anche più profondamente la dissoluzione dell’identità e la conservazione della gioia.
Il chitarrista Scott Holiday dirà che Darkfighter suona come i Rival Sons. Non vediamo l’ora di sentirlo dal vivo.
Se i nostri californiani fanno parte di quella rappresentanza di musicisti stuck in the past, non per questo risultano meno acchiappanti o ancora peggio, poco credibili; possiamo altresì considerarli fra i migliori esponenti di quel filone revival rock/blues ormai irremebiabilmente diventato genere di nicchia. La verità è ci piace l’indie transavanguardistico e l’individualismo neo-decadentista nella musica ma poi vogliamo tornare alle origini: è un po come mangiare il Cyber-Eggs di Davide Scabin e poi volere, fortissimamente volere, dopo, una pizza con la bufala.
Serenamente immersi nello sconfinato patrimonio del sound rock made in USA, non è che i Rival Sons non siano capaci del guizzo creativo che permetterebbe loro di fare quel passo in più verso un approccio più progressista e meno reazionario, è che stanno bene dove stanno e fanno bene quello che fanno, e in quello sanno essere onesti, puri e buoni.
L’apertura, su un palco scarno e vuoto, è Mirrors e il suo intro di organo fa da preludio all’entrata in scena di Jay Buchanan, che si posiziona tra una versione aggiornata di Robert Plant e un riadattamento tamarro di Hansel McDonald, eterno rivale di Derek Zoolander. E tanto testosterone.
Jau sta a piedi nudi, capelli lungi e selvaggi, tamburello mezzaluna con sonagli, gilet aderentissimo con braccia tatuate e scolpite a vista, chiappe sode e piene pronte ad essere dimenate per la gioia delle avvenenti milf delle prime file. I Greta Van Fleet prima di fare brand heritage coi Led Zeppelin hanno sicuramente fatto un braimstorming sui Rival Sons. (con cui hanno in comune Dave Cobb, produttore già vincitore dei Grammy Awards che ha lavorato a Starcatcher ultimo album dei GVF.)
Stasera ne ho la certezza.
Tutto quello che vedremo ed ascolteremo in questa data milanese può essere paragonato ad giornata super comfy alla spa: riff graffianti e catchy che ci fanno ballare bene, linee vocali che si alternano e si intrecciano in ritmi sempre variegati e suadenti, assoli che passano da acide improvvisazione a ritorni sulle linee melodiche proprie del brano e che ci obbligano a fare continui handcapping. C’è la natura selvaggia e la magia elettrica del blues stasera signori, c’è evocazione ed emozione. Quanto stiamo bene.
Jay sa come si tiene un palco e canta da Dio, sia nei brani più più alti di gola come in Electric man sia quando deve fare i conti con il blues di Feral Roots, o nell’omaggio a quel gospel commovente di Shooting Stars (si parla del disco precedente).
Gli assoli di batteria e chitarra di stasera (o lo strumento a doppio manico di Holiday), è uno dei tanti proclami del fatto che la band ha veramente interiorizzato la lezione dei gruppi rock classici e che ne ha sputato fuori una propria versione, tutta nervi, consapevolezza e artigianalità.
I Rival Sons evitano i fronzoli e le ricercatezze ostentate, sono grandi produttori di riff violenti e ruspanti, suoni urticanti, sentimenti genuini e semplici. Lo sentiamo chiaramente nella bellissima Mosaic, Face of Light e i suoi vertiginosi assoli di chitarra, Shooting Stars e le sue trame sonore pregne di di gospel. Spartani, secchi, onesti, grezzi.
Questo è Rival Sons: un climax carico di adrenalina, senza bis, poche parole, set di 2 ore dritto, tagliente, fluidissimo.
Insomma i Rival Sons sono degli acrobati del suono, quello sporco, dirty e graffiante dell’America vintage, tutta whisky e stivali sporchi di fango, è una band che sa giocare con i cambiamenti di dinamica come pochi e che può vantare una sezione ritmica sempre puntuale e potente, merito anche dell’ottimo Scott Holiday, che in armonia con un outfit alla grande Gatsby ma con uno spruzzo di Tarantino, sa essere graffiante e virtuoso. Insomma il ricordo di una performance simile ad una jam tra Otis Redding e i Led Zeppelin con un tocco di Deep Purple è quello che ci portiamo a casa.
Pezzi come Bird in the Hand (un mid tempo ficcantissimo carico degli accenti blues di Mr Fuzzlord), Nobody Wants to Die e via col piede sul gas, Horses Breath e Darkside carica di trame oscure e malinconiche confermano che i Rival Sons sono dei grandi performer e straordinari musicisti.
Saranno anche fuori moda, come direbbero gli influencer su Instagram, saranno anche old-fashioned, saranno pure un unboxing senza sorpresa, saranno pure dei filologi del vintage come ha detto qualcuno, saranno anche i portavoci di una cultura musicale che non molti fanno più, ma dalla quale la maggior parte di quelli che oggi sanno fare musica sono partiti. Che ce ne frega se non è cool, se è musica da boomer. Ci fa godere.
John Lennon diceva che non sapeva se sarebbe morto prima il Rock and Roll o il Cristianesimo. Voi che dite?
RIVAL SONS: la scaletta del concerto all’Alcatraz di Milano
Mirrors
Do Your Worst
Electric Man
Rapture
Darkfighter
Open My Eyes
Pressure and Time
Bird in the Hand
Feral Roots
Nobody Wants to Die
Horses Breath
Darkside
Face of Light
Shooting Stars
Mosaic
Keep On Swinging

