Articolo di Umberto Scaramozzino
Il ritorno degli Starsailor è uno di quegli eventi che sembra riportare pace e armonia in un sistema dall’equilibrio precario. Non aggiunge molto né alla loro storia, né a quella della musica o del rock alternativo britannico – del quale hanno scritto almeno un paio di belle pagine, nei primi Duemila – ma in qualche modo fa bene a tutti noi. Per rendersene conto forse non basta l’ascolto in cuffia di “Where The Wild Things Grow”, buon disco uscito lo scorso marzo dopo un silenzio di quasi sette anni, ma è importante immergersi in una loro prova dal vivo, come questa allo sPAZIO211 di Torino, durante la quale assaporare un’atmosfera che solo una band del post-Britpop può regalare.
Dopo la pausa prolungata che aveva lasciato spenti i motori per otto lunghi anni, una prima reunion del combo guidato da James Walsh arrivò nel 2017 a riscaldare i cuori dei millennial, poco prima di un ulteriore limbo di attese, certamente dilatato dalla pandemia. La promessa di un solido ritorno si rinnova però oggi, con un sesto capitolo discografico che porta con sé la freschezza dei nuovi inizi e la volontà di non restare cristallizzati in un passato assolutamente impossibile da replicare. E in effetti il percorso artistico degli Starsailor, iniziato più o meno nello stesso periodo storico e contesto di altre note band come Keane, Doves, Embrace, Travis, Turin Brakes, Snow Patrol e – ebbene sì – Coldplay, era forse proprio quello più a rischio rispetto alla perfida trappola chiamata “nostalgia“. Un disco come “Love is here” in tal senso può essere sia una benedizione che una condanna, no? Però gli Starsailor hanno un’arma segreta estremamente rara ed efficace per scongiurare questo pericolo: l’umiltà. La stessa con la quale oggi lavorano ai nuovi pezzi, sapendo di non potersi adagiare sui fasti di inizio carriera. Nascono da qui dei brani convincenti, sia in studio che dal vivo, tra i quali spiccano la title-track e la brillante “Heavyweight” che anima la platea come un qualunque evergreen dei primi due dischi.
Lo show è molto breve, appena un’ora e un quarto con una scaletta di diciassette brani (gli stessi di tutto il tour) intervallati da rari momenti di interazione. Quei pochi attimi di contatto tra James e il pubblico, però, sono assolutamente esplicativi di cosa rende speciale una band del genere nel 2024. C’è la totale assenza di spocchia, c’è un sana dose di riconoscenza e la naturalezza che è sempre più difficile da ricercare persino negli artisti emergenti, figuriamoci in un progetto con un quarto di secolo di storia alle spalle. Anche per questo vedere i cinque inglesi sul palco è un piacere. Sorridono, si scambiano cenni d’intesa ed eseguono ogni brano con orgoglio e la voglia di divertirsi. C’è una bellissima atmosfera che arriva senza filtri, inclusiva, figlia di un rock gentile.
“La band è invecchiata, i nostri fan sono invecchiati, hanno dei figli ora e in alcuni casi fortunati quei figli ascoltano le stesse band. È bello vedere alcune persone nel pubblico che sono più giovani di questa canzone”. Così presenta “Fever”, un James Walsh visibilmente divertito e forse anche un po’ emozionato, nonostante abbia quasi certamente sfoggiato questa battuta in ogni show del tour, o almeno tutti quelli con qualche giovane rappresentante delle nuove generazioni. La voce del frontman, in realtà, non sembra invecchiata per niente e se non fosse per James Stelfox, che da autentica anti-rockstar fuma la sua bella sigaretta elettronica sul palco, si potrebbe pensare che il tempo si sia fermato a quel magico momento di inizio secolo e inizio millennio. Una calorosa illusione che forse non proietta gli Starsailor verso un futuro entusiasmante, ma offre una dimensione positiva, rassicurante e benefica nella quale ogni buon amante del britpop può ancora trovare rifugio.