Nel giorno dell’uscita nei cinema italiani di Rocketman, film che narra la trasformazione di Reginald Dwight, da timido pianista prodigio a superstar internazionale, Sir Elton John fa il suo arrivo in una piovosa ed infreddolita Arena di Verona per la prima data italiana del Farewell Yellow Brick Road, epico tour di addio al palcoscenico di un artista a dir poco straordinario. Il meteo non è certo da fine maggio, piove e il caldo è una sensazione molto diversa da quella che provo. Mentre osservo il fiorire di mantelline, cappelli ed ombrellini tra il pubblico, principalmente adulto, che sta popolando l’Arena, decido di ingannare l’attesa indossando la maglia “Bitch is Back”, (sobria!) appena acquistata. Ma all’improvviso, eccoli comparire! Elton John e i suoi musicisti!
In un’Arena che non si aspetta il quarto d’ora di anticipo sull’orario a programma, ecco la battente, martellante ripetizione che fa da inizio a Bennie and the Jets. E la serata prende il via! Gli schermi laterali e il fondo palco sono resi sfarzosi dalla cornice oro intarsiato (ovviamente led), che dà un senso di imponenza al tutto, ma la ricchezza vera del palco è negli strumenti che riesco ad intravedere, tra i quali risalta il pianoforte, posto al centro della scena. I musicisti eleganti in abito scuro, mentre Elton John sfoggia un frac, bordato interamente di strass, con ricamo sulla schiena. Occhiale a montatura spessa rosa, anch’essa carica di brilli. Fantastico! L’inizio tuttavia non è potente come mi sarei aspettata, qualche difficoltà con la voce, come conferma lui stesso, dopo il secondo brano, All the Girls Love Alice. Durante il saluto di benvenuto al live, il nostro ospite non manca di esprimere il suo disappunto per le condizioni del backstage, in particolare delle toilette, ma ringrazia simpaticamente il pubblico per aver pagato il biglietto e conferma la sua felicità di essere in Italia, paese che lui ama molto. Si scusa tuttavia, perché ha un terribile raffreddore e di conseguenza la voce ne risente. Uno dopo l’altro, ascoltiamo una selezione dei brani più rappresentativi della sua carriera (sono davvero tanti), restando comodi negli anni ’70. Ci facciamo trasportare da Border Song e Tiny Dancer, con entrate ed uscite della band, mentre il nostro Sir resta rigorosamente al pianoforte, impegnato sui tasti dai quali non distoglie lo sguardo, se non per ricevere gli applausi e rivolgere espressioni, gesti simpatici e sorrisi ammiccanti al pubblico. Pubblico, che è totalmente rapito da lui, dalle sue mani veloci e incisive proiettate sugli schermi a favore di tutti, dai suoi eccezionali musicisti e da una straordinaria copiosità di suoni. Arriviamo ad Indian Sunset, con un inizio a cappella che riecheggia in un’Arena che ora è al buio. Alla voce si aggiungono le note del pianoforte e le percussioni, in un arrangiamento di esaltazione reciproca dei due strumenti, che crea un’atmosfera tanto potente quanto mistica.
Dagli indiani d’America alla polvere interstellare, che portano a lui, Rocketman con un botta e risposta tra pianoforte e chitarra double top da far saltare tutti dalla sedia, per una standing ovation istintiva. Sempre aggirandoci per gli anni ’70, arriviamo al momento che credo porterò nella memoria per molto molto tempo. Levon. Assistiamo ad una jam session difficile da descrivere, con un Ray Cooper potente e scatenato alle percussioni, un lunghissimo assolo di chitarra double neck che ci cattura a tal punto da far sgranare sempre di più gli occhi, tra l’incredulo e il sognante. Un tripudio di basso, batteria e tastiere, un fiume in piena di suoni. Siamo tutti esaltatissimi. Meraviglia è quello che leggo negli sguardi che riesco ad intercettare intorno a me. Al termine si fa fatica a riprendersi, ma è Norma Jean e la sua malinconica bellezza che ci rimette seduti ad ascoltare, con la compostezza che merita, Candle in the Wind. Restiamo da soli, al buio, con suoni sinistri di burrasca e tempesta (e non ci scherzerei visto le condizioni meteo) che mi catapultano da Verona a Sleepy Hollow: Funeral for a Friend/Love Lies Bleeding, con l’intro grave e potente al pianoforte di Sir Elton (che ora indossa un completo azzurro con polsini finemente ricamati di preziosi) seguito dal potente progressive rock. E dopo il pianoforte in fiamme (ovviamente solo visual) di Burn Down the Mission ed una toccante Daniel, Elton John ci racconta di sé, di come il 1990 sia stato un anno di svolta, un momento di epifania personale in cui ha ammesso di avere bisogno di aiuto. E una volta ristabilitosi, ha iniziato a lavorare alla sua fondazione che aiuta i malati di AIDS. “Non si può più morire per questa malattia, i farmaci e le cure devono essere accessibili anche a i poveri ed emarginati. Dobbiamo portare amore e compassione”. “Sono Europeo!” esclama e si scusa per la Brexit, che ha diviso ancora più le persone, invece che unirle. Ascoltiamo Believe, mentre sugli schermi passano le immagini che lo ritraggono nelle più diverse situazioni, mentre porta avanti il suo impegno. Ma non mancano le parole di ringraziamento verso il pubblico, che è stato una costante del suo cammino ed è sempre stato generoso con lui. Lo porterà sempre con sé, nel suo cuore. Ora è tempo di dedicarsi alla sua vita e ai suoi figli. Terminano il live un tris che si commenta da solo: The Bitch Is Back, I’m Still Standing, Saturday Night’s Alright for Fighting e il pubblico ormai non sta più seduto, libero di ballare.
Il rientro per il rush finale è in look relax: vestaglia da camera fiorata, per le l’intima Your Song, che una lacrima la fa scendere, e Goodbye Yellow Brick Road. Via la vestaglia resta in tuta. Ci saluta e scompare nello spazio, per arrivare ad un bosco incantato, una sorta di eden, dentro al quale, sereno, si incammina.
Una serata emozionante, un concerto sbalorditivo per location, abiti, eleganza, ma soprattutto per la musica, un livello così alto da lasciare senza parole. Ho già nostalgia.
ELTON JOHN – La setlist del concerto di Verona (29 maggio)
Bennie and the Jets
All the Girls Love Alice
I Guess That’s Why They Call It the Blues
Border Song
Tiny Dancer
Philadelphia Freedom
Indian Sunset
Rocket Man (I Think It’s Going to Be a Long, Long Time)
Take Me to the Pilot
Sorry Seems to Be the Hardest Word
Someone Saved My Life Tonight
Levon
Candle in the Wind
Funeral for a Friend/Love Lies Bleeding
Burn Down the Mission
Daniel
Believe
Sad Songs (Say So Much)
Don’t Let the Sun Go Down on Me
The Bitch Is Back
I’m Still Standing
Saturday Night’s Alright for Fighting
Your Song
Goodbye Yellow Brick Road