Proprio come nella lirica provenzale, in queste dieci tracce si ritrovano nuclei concettuali coerenti e concatenati; si parte con un brano, Siddharta, trascinato da chitarra acustica e aggraziato dal violoncello di Rossi, che intavola subito il primo tema, ovvero il senso di smarrimento sia interiore sia ‘logistico’: i demoni del tuo io non dormono mai e sei alla costante ricerca di un luogo a cui puoi dire di appartenere. In Fisher King (On the 7.40 Train) questa ricerca continua, sì, (we talk about/a place that remains to be found) ma a cuor più leggero, nell’immobilità e nel torpore di uno splendido mattino di sole: le spensierate arie folk si fanno via via più turbinose, prima con la ripetizione ossessiva di ‘It feels like I don’t care’, poi con un finale concitato di toni fragorosi, note alte e percussioni. Beyond Ancona Harbour introduce la seconda macrosfera semantica, quella della comunione con la natura e, in particolare, con l’ambiente marino (sea/shipwrecked/creek…). Lo stile potrebbe ricordare quello dei Mumford & Sons, ma risulta meno magniloquente, semmai con un tocco più naïf alla Nick Drake. Si parla esplicitamente di amore e di scompigli interiori nella bellissima Chaos is Busy, che esplode nello sgolato ‘It’s real’ finale. Altre due ballad molto sentite sono Wasted, dove ancora una volta la riva è luogo di raccolta e riflessione, e la più ottimista Jonah: secondo l’ormai collaudato ed efficace schema ritmico, gli sbuffi di batteria di Pedrazzi diventano raffiche accompagnate da urla liberatorie. Sicuramente uno dei pezzi più sperimentali è The Fire Sermon, con organo e harmonium a creare un incipit medievaleggiante che si evolve poi in un labirinto folk pop. It’s lack or just an empty stomach: questo si chiede il protagonista di Never Again, in cui il senso di lontananza è accentuato da una delle più intense, articolate (e lunghe) trame sonore dell’album. Il disco si chiude sulle dolci melodie di The Coal Song e The Morning Tale, dove domina il banjo e riecheggia il flicorno, una rievocazione bucolica che apre sterminati orizzonti.
Senza troppi giri di parole, Arnaut è davvero un disco da possedere, fisicamente e interiormente, che disegna un immaginario colorato opposto a quello del suo artwork, peraltro molto accattivante, in bianco e nero. Passando in rassegna Dylan ed Iron & Wine, strizzando l’occhio a The Decemberists ed Okkervil River, il trio di Angus Mc Og ha realizzato una poesia lunga 40 minuti che, proprio come diceva Daniel tanti secoli fa, è un “prodotto artigianale ottenuto affinando la materia delle parole” e, in questo caso, della musica. Che aspettate… Accattatevill’!
Karen Gammarota