Articolo di Marzia Picciano | Foto di Andrea Ripamonti
Ho visto una stella ieri brillare nel centro Italia. Non era una meteora con un forte accento del centro Inghilterra, come molti sostenevano vent’anni fa, con la sicurezza di chi non soppesa le parole. E neanche una stella cadente. L’unica cosa che ieri il signor Robert Peter Williams, Robbie Williams, ci ha confermato nero su bianco dal palco dell’Unipol Arena di Bologna, nella prima della doppia tappa italiana del suo XXV European Tour (sotto la regia di Live Nation), la prima del 2023, è che di movimento ellittico nel suo attraversare kantiani cieli stellati c’è solo un’elegantissima parabola di vita, alla faccia di chi ci vuole stelle cadenti.
Pochi artisti, e dico artisti con la “A” maiuscola, sono stati in grado di firmare il proprio passaggio negli anni ’90, uscendo rocambolescamente dalla stagione delle boyband per saltare a piè pari e sorriso spaccone nei 2000 arrivando fino all’altro ieri, magari anche cercando vita nello spazio. Lo conferma l’estrema varietà demografica che riempiva l’arena (e la scelta di aprire lo show con il duo di DJ dei Lufthaus). Devo trattenere l’entusiasmo, e il fiume di parole, anche se è difficile per una che è cresciuta a pane e E! Entertainment limitarsi su un soggetto come Williams. Ieri ho visto un pezzo di storia della musica, e un revival della mia adolescenza, acchittata in paillettes perse tra coriandoli, coriste e corpo di ballo, venirmi sotto a ricordarmi che ha ancora molto da dire, soprattutto su sull’essere super star ieri, oggi e domani. E’ questo che il re di Stoke-On-Tent vuole fare in questo tour di promozione dell’omonimo album, un raccolta dei suoi successi riarrangiati da Jules Buckley, Guy Chambers e Steve Sidwell e ri-registrata con la Metropole Orkest nei Paesi Bassi. Ribadire senza mezzi termini che lui è “Robbie F****** Williams”, e noi, ubi maior, non possiamo fare altro che annuire.
Ieri Robbie era ancora Robbie Williams. Capello più grigio ma lo sguardo vivo e sfacciato di sempre, di chi la vita non la subisce, se la mangia letteralmente con gli occhi. Un animale da palco, e che palco. Non ha mollato il pubblico per un secondo, andandogli addosso fisicamente (e viceversa: scherzava su qualcuno che lo ha letteralmente “agganciato”) e verbalmente, arringandolo con il Vangelo secondo Robbie, un Nuovo Testamento del Profeta – un po’ fiaccato dal long Covid – del Divertimento, quello che ha scaldato la folla, in delirio, su Let Me Entertain You, il pezzo che ha aperto veramente le danze. Nella Versione di Robbie di quello che è successo dal 1995-96 ad oggi c’è spazio per spiegare, cosa che il cantante ci tiene particolarmente a fare pezzo dopo pezzo in due densissime ore di concerto, oltre che a raccontare cosa gli è successo, che risultato di contaminazioni e testa calda è oggi, e perchè ci piace così tanto, a mamme e piccini.
E infatti, dopo aver ammiccato, corrisposto, con Strong e l’apologetica Come Undone, si inizia ricordando loro, l’odi et amo, l’esperimento macchina da soldi dei Take That, intonando i primi versi di Could It Be Magic e proiettando Do What You Like, stoppandoli bruscamente (su un video-cut di natiche, tra l’altro) e ricordando agli astanti, ancora inebriati con le mani in aria, i momenti della Passione di Robbie per voler essere diverso, e la salita al monte degli Ulivi di Glastonboury del 1995 insieme agli Oasis, la fuitina anch’essa rocambolesca a cui dedica (ironicamente?) in questo show la cover di Don’t look back in Anger, con tanto di pleateale imitazione di Liam Gallagher. Come in un flashback si ricostruisce la tornata alla città del figliol prodigo, dannato per essersi unito alla convention dell’indie per eccellenza, niente pop studiato da marketing manager ma fango e chitarre, un po’ come se dei cooperanti andassero a stappare birrette a Pontida, per dire; non come oggi in cui le popstar sono rock e cavalcano gli stage del Primavera. E se con il nostalgico trasportato di The Flood si conclude il ricordo della battaglia per la libertà (contrattuale) di cantare e dall’etichetta di pecora nera, si salta poi in un battibaleno alla famiglia di oggi, che dopo tutta la droga, sesso e rock-n-roll del successo da solista ha trovato e celebrato in Love of My Life. Menzione d’onore per l’esibizione intensissima a bordo pista di Eternity, pezzo dedicato al suo angelo nel rehab, la Ginger Spice Geri Halliwell (solo a sottolineare la vita incredibile di quest’uomo).
Quello che è venuto dopo è stata una selezione attenta dell’album di greatest hits. Un deep diving nell’estrema ricchezza della produzione del cantante, passando dall’album che ha rotto gli indugi sulla sua tenuta di artista, Live Thru Lens, a I’ve Been Expecting You fino a quella pietra angolare della storia del pop che è Sing When You’re Winning con Rock Dj e Kids (non perdonerò l’assenza di Kylie Minogue su un duetto iconico, emblema della pazzia furiosa che prende due persone quando vogliono davvero esagerare), fino alle hit di Escapology (cori su Feel), e alle più recenti Tripping e Candy.
L’encore, manco a dirlo, è composto dalla triade dell’intimismo robbiano, cantato appunto in un (esageratissimo) accappatoio nero e dorato da pugile a fine incontro: No Regrets, She’s The One e l’infinita power ballad Angels. Insomma quelle e quella canzone che ti fa alzare e cantare a squarciagola l’inno nazionale dell’amore eterno, resa indelebile nell’immaginario collettivo dalla performance del 1997 nello show del Memorial Fund di Lady Diana. Ha continuato a far cantare il pubblico anche nell’uscire di scena, testando compiaciuto la conoscenza del suo Verbo da parte del mercato italiano. Accennando pezzi non fatti, ha lasciato la speranza che le grandi escluse (fra tutte Sexed Up, Lazy Days e Millenium) siano nella scaletta di stasera, seconda data di uno show che si, in conclusione, tutti dovrebbero vedere prima di morire.
Perchè è chiaro che Williams ha lasciato un segno nella storia, facendo di un serissimo mai prendersi troppo sul serio la chiave per sfondare il cuore di un pubblico visto sempre e solo in scatole di focus group, puntualizzando che l’essere sempre se stessi, l’essere autentici, anche se brutali, paga sempre. Ieri sera abbiamo visto tutto, un caleidoscopio di scandali, flirt, odiosi paparazzi, droga, redenzione e sobrietà (mai nella performance però). Un mondo, quello della scena londinese di fine anni ’90, perso in divisioni e regole applicate con la violenza di una spedizione punitiva hooliganiana, che Williams, romantico realista della schifosa macchina dietro le telecamere, ha ampiamente esorcizzato nei suoi testi.
C’è sempre un fortissimo senso di rivalsa quando si parla di lui. Robbie Williams ha definito l’unità di misura di quanto siamo capaci di andare a fondo, nel senso di affondare, in noi stessi, violare i nostri santuari, trovarci dentro qualcosa di incredibile e trasformarlo in cavalli di battaglia. “Nothing is sacred, but it’s a living”, lo dice in un pezzo più recente, e un po’ chiosa una carriera prolifica, di chi non si è sottratto mai alla sfida, prima di tutto quella dell’eternità. Williams ha fatto in 25 anni quello che io e sono sicura molti altri ci sforziamo di fare in molti meno giorni, pressati dall’emergenza, con la disperazione di un criceto intrappolato nella sua estenuante ruota infinita: trovare una via di fuga, un canale di aerazione per far uscire il tossico, rompere gli schemi, disegnare la parabola del nostro splendore. Non essere meteore nella nostra vita, ma brillare eternamente.
Clicca qui per vedere le foto di Robbie Williams in concerto all’Unipol Arena (o sfoglia la gallery qui sotto)
ROBBIE WILLIAMS: La scaletta del concerto di Bologna del 20 gennaio
Hey Wow Wow Yeah Yeah
Let Me Entertain You
Land of a Thousand Dances
Monsoon
Strong
Come Undone
Do What You Like (Video)
Could It Be Magic
Don’t Look Back In Anger (Oasis)
The Flood
Love of My Life
Eternity
Tripping
Candy
Feel
Kids
Rock DJ
ENCORE
No Regrets
She’s The One
Angels
Giuseppe
24/01/2023 at 15:59
Articolo bellissimo che RW merita appieno