Articolo di Chiara Amendola | foto di Roberto Finizio
Quando le Pussy Riot si esibiscono, che si tratti di una cattedrale, della finale dei mondiali o un di club di musica dal vivo, non ci sono regole. Neanche fuori.
Il Tour “Riot Days” arriva per la prima volta in Italia, al Legend Club di Milano, uno spettacolo, che ha poco o nulla a che fare con un concerto tradizionalmente inteso, si tratta di una performance ideologica di jazz-punk che nasce dall’omonimo libro di una delle “passionarie” russe: Maria Masha Alyokhina. Ma facciamo un passo indietro per capire davanti a chi ci troviamo.
Le Pussy Riot sono un collettivo di protesta contemporanea in chiave punk rock, celebri per loro battaglie per i diritti civili, a sostegno delle donne, della comunità LGBT e di tutte le vittime d’ingiustizia.
Il gruppo di attiviste si muove nell’anonimato attraverso apparizioni provocatorie, guerriglie in luoghi pubblici non autorizzate, continue ribellioni in favore dello sviluppo della democrazia ma soprattutto opposizioni decise nei confronti di Putin.
Le loro abilità politiche sono chiare al mondo dal 2012, quando hanno eseguito “Punk prayer” in una cattedrale ortodossa a Mosca attirando l’indignazione internazionale. Arrestate e condannate, per questo episodio, a quasi due anni in un campo di lavoro.
Meno popolari sono le competenze musicali, che si sono rivelate in tutto il loro furore per la prima volta in Italia.
La platea è composta da giovani curiosi che come me non sanno cosa aspettarsi, ma non sono gli unici, intravedo anche diverse sciure con collane di perle che emanano un profumo di messa in piega appena fatta. Di certo non è la passione per la musica underground che le ha condotte fin qui ma è bello trovarsi dinnanzi a un parterre così eterogeneo.
La line up della band potrebbe essere apparentemente intercambiabile, come le Sugababes con la maschera, ma in questa occasione c’è solo uno dei volti ufficiali del gruppo, Masha. Insieme a lei, al mixer, un’affiatatissima performer e due uomini, un musicista in occhiali da sole che alterna le percussioni al sassofono, e un vocalist in leggings e giacca di pelle che ostenta un vigoroso petto nudo.
Il live del gruppo è a metà strada tra un appassionante pezzo di teatro musicale, un pungente recital tratto da un romanzo e una proiezione cinematografica che si dispiega come un thriller nervoso.
Uno schermo traduce i dialoghi mostrando i sottotitoli in italiano. Alyokhina, nel suo passamontagna rosa racconta ogni fase scioccante dei suoi maltrattamenti a velocità inesorabile. Un matrimonio tra arte e musica estremamente politicizzato, con cover di canzoni folkloristiche della prigione russa e alcuni brani in lingua originale su eventi politici.
Un’esperienza che procede senza sosta tra assoli skronky sax, ravey techno-punk, un mix coinvolgente e sperimentale che trascina i corpi dei presenti in danze quasi tribali.
Lo slogan “Everybody can be a Pussy Riot” lampeggia in grassetto sullo schermo mentre la formazione urla all’unisono. Anche al merchandising sono in vendita le t-shirt che riportano lo stesso motto, con un cartello che annuncia che il ricavato delle vendite sarà devoluto ai prigionieri di guerra. Sono tentata dall’acquistarne una ma scopro ahimè che non accettano pagamenti con carta e il primo bancomat è a 600 metri.
Normalmente, sarebbe difficile mantenere la concentrazione con questo urlare monotono e nessuna pausa (a un certo punto, qualcuno nella folla si gira verso un altro e gli chiede: “Pensi che prima o poi inizieranno a cantare?”). Ma è impossibile distogliere lo sguardo, anche quando il vocalist che balla come Jason Orange dei Take That lancia bottiglie d’acqua sulla folla. Ho un attimo di esitazione, non poteva essere tutto tranquillo d’altronde. Temo per l’incolumità della mia faccia, mi sposto in fondo alla sala ma non riesco a smettere di guardare cosa succede.
La mia attenzione viene catalizzata da diverse ragazze, parlano in russo e sono truccate con i colori della protesta. Come se avessero disegnato sul volto il passamontagna simbolo delle rivoluzionarie dell’Est. Sono particolarmente emozionate e scopro che conoscono quasi tutti i testi a memoria. La mia mente viaggia e per un momento immagino che possano essere delle supporter in “borghese”, ma in fondo, scagli la prima pietra chi non lo è in questa sede.
La serata si conclude con una riflessione toccante e superba, Masha rinnova la sua fedeltà alla causa, non importa dove sia, se in carcere o all’estero, la sua dedizione e la sua appassionata indipendenza significheranno sempre che lei è libera. Le luci si accendono sul pubblico e la band intona “Are you?”
Vado via orgogliosa per aver preso parte a un momento così importante della storia attuale, ma prima decido di portare con me un souvenir della serata, un poster con un’illustrazione (che scopro essere stato realizzato dalle Go Go Ponies, il gruppo supporter) in cui una ragazza realizza cappucci in cotone con la sua macchina per cucire, una scritta recita “Grlll Just wanna have fight”, sintesi perfetta di un messaggio femminista entrato nell’immaginario universale.
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