Articolo di Marzia Picciano
Quando ascolti i NINE INCH NAILS, che tu sia un esperto di Trent Reznor e delle sue multiformi espressioni artistiche, o che ti trovi ad ascoltarli per la prima volta per molteplici motivi, lo capisci subito che metà della roba che ascolti oggi – e per cui vai in estasi – inizia con loro. E non solo.
Mettiamo da parte per un attimo la categoria “industrial rock” che campeggia su ogni pagina web a loro dedicata: qui non c’entra niente. Nel sentirli, vederli dal vivo al Parco della Musica di Milano, per l’unica data italiana del Peel It Back Tour 2025, ieri 24 giugno (serata di date uniche, come quella dei Linkin Park agli I-Days) e considerato che, alla fine, non é che fossero da così tanto tempo lontano dai palchi (anche se per la sottoscritta si é trattata della prima, agognatissima, volta), il pensiero é così lampante, é così palese, che viene da chiedersi: ma non é che il signor Reznor sa davvero qualcosa che io e tanti altri non sappiamo?
Probabile. Reznor, nella sua ultima vita insieme ad Atticus Ross, il de facto alter ego del cantante nei NIN, oltre a incassare Grammy e fare dischi di culto, di cose ne ha fatte e tante. Si sono messi a fare colonne sonore e gli escono bene, su di loro hanno puntato mostri sacri come David Lynch, e infatti ci hanno preso due Oscar e pure un Golden Globe (onestamente, Challengers dovevano essere il terzo Oscar, ma vabbé). Il che non é semplice, bisogna avere tanto orecchio, soprattutto per l’anima, per la storia, mica sferragliare tra consolle e slide, ma ripeto: ci pare che i NIN abbiano mai fatto questo?
No. Ecco perché i NIN sanno cose che noi non vediamo, ma intuiamo. Le vedono da sempre, dall’89 che incidono dischi; Reznor ha 60 anni ma a vederlo io gliene darei 30 o anche nessuno, é uno spirito umano puro, pieno della sua impurezza, con una voce profonda e intensa come troppe poche ne sento oggi, schiva nell’approcciare il pubblico, potente nell’aizzarlo. Uno che ruggendo sottovoce ti dice di concentrarti sul dolore, perché é l’unica cosa che é viva, e comunque ti pone uno statement, semplice, diretto: “I wanna fuck you like an animal” mentre dietro il resto di quella che é la formazione attuale dei NIN, ovvero Ross, Robin Finck, Alessandro Cortini e Ilan Rubin, butta giù palazzi di rumore, chitarre, tastiere, batterie (si potrebbe aprire un trattato sul ruolo della batteria nella musica dei NIN). Sembra quasi sentire qualcuno dire: mi hai conosciuto in un momento molto strano della mia vita.
Già chiamarlo Peel It Back Tour é una sfida concettuale interessante. Nella March of the Pigs, uno dei pezzi più iconici di quello che – a mio umilissimo avviso – é molto più di un concept album, The Downward Spiral, ma appunto il manifesto delle intenzioni dei NIN per la musica e non solo (i.e. analizzare l’orrore Conradiano dell’uomo moderno), ecco in quel pezzo che é un’escalation di BPM che abbiamo sentito arrivarci come un’orda di razzi (siamo in tema, del resto) anche ieri sera, c’é la soluzione, per me, che non é il verso che dà il titolo al tour, ma é shove it up inside, surprise, lies: é un ripulirsi interno, togliere via tutto, sistemarsi, mentirsi, mettere tutto in bella mostra. Poi si sa: la NIN-entology non é una scienza esatta, é un percorso hegeliano verso l’essenza, quindi a ognuno il suo.
Sappiamo che per questo tour abbiamo sentito, in altre date, di multi-palchi, di cambi di scenario, mix techno con il producer tedesco Boyz Noyze che anche ieri ha aperto il concerto con un tentacolare dj set, di intimismi quasi virtuosi, e di alcuni incidenti di percorso. E ieri invece abbiamo avuto un solo palco, semplice, e tutta la furia di Reznor e i suoi sodali nella battaglia per il nostro io malato e doloroso.
Uno show fatto di muscoli, sudore e e violenza.
Cambio di setlist totale. Mai ripetersi? Si apre con una veementissima Something Damaged , segue una scarica di potenza a terra che include Wish nella sua versione più di metallo, Letting You (prima volta nel tour), le classiche March of Pigs e Piggy. Il primo stop a questo incipit da schiaffi in faccia arriva paradossalmente con Copy of A che con la sua drum machine a ritmo di copia e incolla segna le deviazioni verso quella techno che i NIN hanno dentro e che si sposa così bene con la cavernosità melodica della loro musica (senza contare Discipline, che per mia infinita gioia é stata fatta proprio in questa data).
É un crescendo di delirio che si concede poche pause: non c’é tempo di perdersi in riflessioni, ci si deve cadere dentro, svegliarcisi dentro come nei buchi di lucidità di serate acide, o magari semplicemente della propria quotidianità che si sa, é peggio di una droga se non la controlli. Come la scappatoia del sesso da assenze di redenzione che é il mantra disperato di quel pezzo così diretto, eppure così reale, che é Closer. É così che arriviamo a brani crudi, eppure rodati nelle menti dei loro fan, quali Burn, The Perfect Drug (con il suo finale appassionato e il formidabile assolo di batteria Rubin), Gave Up e la cantatissima come Head Like A Hole.
In un scenografia semplice, fatto di quattro persone che sono quattro diavoli che appaiono e compaiono tra nebbia e luci intermittenti, Reznor, nella sua “rabbia controllata” (lo ha scritto senza sbagliare davvero qualcuno qualche tempo fa, e lo quoto anche oggi) sembra posseduto da una forza interiore che riversa completamente, inteso anche fisicamente, tra chitarra e microfono, uno sforzo sovraumano per aggrapparsi a un’ancora nel tirare fuori daimon senza speranza. e che ci butta immediatamente nello stato in cui dobbiamo essere per tutta l’ora e mezzo che ci offre: in trance. Se il virtuosismo delle date precedenti sembrava aver pressato troppo la band, e di conseguenza la schiera del suo esercito di magliette con logo, lo spazio aperto di una location non paragonabile, ovvio, alla O2 Arena di Londra, pare al contrario averla liberata. Mi dicono quelli che l’hanno visto proprio lì: ieri Reznor sembrava davvero contento.
Lo ammetto: studiando le date precedenti, mi preparavo ad assistere alla celebrazione della quintessenza del nichilismo per mano di un sacerdote di un rito arcaico oggi avvezzo a spiegarlo al mondo dei parvenu culturali tipo la sottoscritta, invece mi sono trovata a un vero e proprio concerto dei Nine Inch Nails, e credo che anche chi era con me ieri sera ne fosse cosciente, e soprattutto grato. Anche di sentire in questa versione nuda e cruda un pezzo così necessario come I Am Afraid Of Americans, presa in prestito dal Duca Bianco (e sentita qualche settimana fa da Agnelli nel suo Lazarus), che risuona come il sibillino memento mori dei NIN su quello che ci sta succedendo ora, intorno a noi. Un’altra perla in nell’oceano distorto in cui i NIN pescano rude poesia.
Per questo, I am afraid of Nine Inch Nails. Dio, quanto avevamo bisogno di un concerto come quello di ieri? Quanto avevamo bisogno di descostruirci nel disastro che pezzi e parole come bow down before the one you serve, sono in grado di scatenare in noi? E di non sentirci male al pensiero, ma scoprirci capaci guardare con compassione ed emozione quello che siamo, lì a terra, vergognosi pezzi di carne? Tanto. Come avevo bisogno di emozionarmi nel finale, non inaspettato, di Hurt, la chiosa perfetta di un ciclo di brutture dove la voce di Reznor e il crescendo del pezzo celebrano la sconfitta ma anche la vittoria, la presa di coscienza che alla fine l’amore per noi, per il mondo c’é, é quello che rifuggiamo. Si, ne avevo un bisogno disperato.
NINE INCH NAILS – La scaletta della data di Milano
- Somewhat Damaged
- Wish
- Letting You (tour debut)
- March of the Pigs
- Piggy
- The Lovers
- Echoplex (tour debut)
- Less Than
- Copy of A
- Closer (con “The Only Time”)
- Discipline (tour debut)
- Find My Way (prima live dal 2018)
- The Big Come Down (tour debut)
- The Good Soldier (prima live dal 2018)
- Ìm Afraid of Americans (David Bowie cover)
- Burn
- The Perfect Drug
- Gave Up
- Head Like a Hole
- Hurt
- Laura Palmer’s Theme