Articolo di Jennifer Carminati | Foto di Davide Merli
I Clutch sono uno dei nomi di culto della scena stoner rock internazionale, amati per il loro carattere operaio e concreto, per la musica ricca di groove e per la carismatica voce del loro frontman. I giovanissimi Tim Sult (chitarra), Dan Maines (basso), Jean-Paul Gaster (batteria) e Neil Fallon (voce) si formarono a Germantown, Maryland nei primi anni ’90 per suonare un rock/metal alternativo e roccioso, evitando sempre la tamarrata, non hanno paura di osare soluzioni ardite e i loro riff sono corposi e pienamente rock e la voce di Neil roca non di rado si lancia in metriche funky/rap al limite del crossover. Se volessi provare a definire il loro sound credo potrei dire che è un convincente mix di hard rock blues sporcato di funk/soul., ma comunque non renderebbe l’idea, dovete ascoltarli per capire di cosa sono capaci. La band, come detto è attiva da una trentina d’anni ormai ma non ha mai avuto un disco campione di incassi, né un singolo che gli aprisse le porte delle radio. Ma nonostante questo “successo mancato” i Clutch con spirito di sacrificio, passione e volontà, passo dopo passo hanno conquistato un nutrito seguito di devoti fan grazie anche al fatto che i loro dischi invecchiano bene, così come loro stessi, del resto, e la loro carriera è priva di veri e propri passi falsi. Finalmente tornano per un’unica data in Italia questo sabato sera di fine novembre in quel del Fabrique di Milano.
Prepariamo le nostre orecchie quindi per una notte hard&heavy, che metterà d’accordo metalheads e rockers, ne sono certa sin da ora perché (!spoiler!) so già cosa ci aspetta.
Opener della serata i Tigercub, trio formatosi a Brighton nel 2011 e che dieci anni dopo firma per Loosegroove Records,label di Stone Gossard, chitarrista e membro fondatore dei Pearl Jam grande fan della band, che definisce il frontman Jamie Hall una star naturale, cantautore e cantante eccellente nonché un fottuto chitarrista; con lui Peter James Wheelwright al basso e James Allix alla batteria. Che dire, ascoltiamoli live e vediamo di che pasta son fatti. Son solo le h 18.45 quando salgono sul palco e suoneranno purtroppo di fronte a poche decine di persone, un vero peccato per chi se li è persi. Jamie ci promette di volerci salutare tutti uno a uno dopo il concerto; ci si vede dopo per una birra insieme quindi, non male come prospettiva di fine serata. Nella mezz’ora a loro disposizione ci proporranno 8 pezzi dai loro due album ad oggi usciti, ‘Abstract Figures in the Dark’ del 2016 e ‘As Blue ad Indigo’ del 2021. Ci sono brani come “Control”, con la sua intro di chitarra curiosamente sincopata e un ritornello edificante. “Stop Beating On My Heart Like a Bass Drum” inizia con un’apertura malinconica di vocalizzazioni armonizzate, stratificate e messe in loop per formare gli accordi vocali a cappella, e rappresenta uno dei momenti salienti del set. E dopo questo momento tranquillo e orecchiabile ecco che i Tigercub ci schiaffano in faccia tutta la forza del loro formidabile suono hard rock con “The perfume of decay”. A concludere “Beauty” è stato un altro momento straordinario con la spavalda chitarra solista a farla da padrona. I riff grintosi sapientemente consegnati dai Tigercub hanno riempito con la loro potenza e incisività lo spazio vuoto che avevano di fronte e sono stati divorati da un pubblico sparuto ma affamato di buona musica e che ne avrebbe voluta ancora. Il loro indie rock alternativo intenso ha tenuto le nostre orecchie sintonizzate su ogni singolo brano proposto pur non essendo di facile ascolto, soprattutto se ci si addentra nel leggere i loro testi che parlano di ansia, depressione, malattie mentali, morte. Insomma, chiedono molto all’ascoltatore ma è alquanto ricompensata la fatica con quello che offrono in cambio. Da stasera ignorare questi talentuosi ragazzi sarà impossibile almeno per quanto mi riguarda, e li consiglio anche a tutti voi che state leggendo questa recensione e magari siete arrivati tardi in questo Fabrique in versione ridotta e ancora in attesa di essere riempito.
Siamo partiti già col piede sull’acceleratore, insomma, e continuiamo a mantenerlo anche con i Green Lung. Inglesi come i loro predecessori, formatosi a Londra nel 2017, all’attivo prima di ‘Black Harvest’ uscito nello scorso autunno, un demo, un EP e un primo full-length ‘Woodland Rites’ in cui un doom tipicamente inglese, al centro di un ipotetico triangolo rappresentato dai Black Sabbath, passando per Electric Wizard e Cathedral la fa da padrona. Chi come la sottoscritta grazie al mio vecchio (Ulisse Carminati, firma UC per i metalheads) è cresciuto a pane a “Paranoid” sa che c’è ancora un gran bisogno di hard rock sabbathiano, ma non quello scimmiottante il verbo di Tony Iommi. No, quello che, pur ostentando sfacciatamente le sue influenze, ci sbatta in faccia canzoni trascinanti, chitarre heavy e incalzanti, un certo non so che di divertimento occulto a permeare ogni istante. I Green Lung sono una delle migliori risposte possibili a tale richiesta, ve lo garantisco. In questa mezz’ora abbondante a loro disposizione il combo inglese ci offre una setlist rombante, dai panorami tanto oscuri quanto divertenti. Chitarre e organo che dialogano tra loro in maniera magistrale, episodi equamente suddivisi tra esaltazioni di potenza hard rock e tentazioni psichedeliche. Un dedalo di sfumature del suono che fa fluire ininterrottamente da una canzone all’altra i loro riff contagiosi, ammaliando le prime file e non solo fin dalle prime note. Impatto chitarristico squassante ingentilito a volte da seconde voci pacate e rasserenanti. Due piccoli teli bianchi con altrettanti caproni neri disegnati è tutta la scenografia posta on stage, trombe ad introdurre il loro ingresso e via, togliamo il freno a mano e si riparte con la musica. Si passa dai suoni progressive di “Woodland Rites” al heavy/doom addolcito dalla classe di Scott sui quale svetta il frammento centrale all’insegna di esoterismo di “The Ritual Tree”. Ai riff portanti della chitarra di Scott Black si aggiunge spesso la voce dell’organo di John Wright che conferisce al contempo solennità e corpo alla melodia. La tellurica sezione ritmica di Joseph Ghast e Matt Wiseman completa con veemenza il quadro d’insieme. Indubbiamente la voce acida e nasale di Tom Templar in alcuni frangenti evoca, inutile negarlo, quella di Ozzy, pur non raggiungendo chissà quale estensione e potenza vince alla lunga distanza il confronto con tanti cantanti heavy metal tanto bravi quanto anonimi. Il frontman, infatti, è dotato di una dose non indifferente di teatralità ed estro, oltre che un innegabile carisma, che rende la proposta dei Green Lung unica e fuori dal coro. “Graveyard Sun” è quanto di più si avvicina a una ballad, seppur con retaggi psichedelici tipici dello stoner. La degna conclusione del set è affidata a “Let the devil in“ brano esemplificativo di come i nostri siano in grado di bilanciare le parole doom e anthem, in un tripudio di continue armonizzazioni di chitarra e basso a comporre un muro sonoro micidiale. Sia chiaro, se cercate innovazione e sperimentazione, meglio rivolgersi altrove; ma se cercate un rifacimento fatto come si deve dei dogmi del doom e dell’hard rock settantiano, fatevi avanti e andate ad approfondire l’ascolto dei Green Lung, cosa che io ho già fatto ovviamente in preparazione a questa sera. Quello che il combo inglese propone è un vero e proprio ritorno alle origini del rock che quando fatto in questa maniera non può che trovare il plauso del pubblico. Ascoltare per credere, non ve ne pentirete.
GREEN LUNG – la scaletta del concerto al Fabrique di Milano
Woodland Rites
Leaders of the blind
The ritual tree
Graveyard sun
The Harrowing
Old Gods
Reaper’s Scythe
Let the devil in
Scenografia minimale, un enorme telo sul retro del palco con il loro nome scritto a caratteri cubitali e raffigurante la copertina dell’ultimo album. Punto. Il resto del palco è riempito interamente dalla presenza scenica della band e il loro talento unito alla passione con cui vivono le loro incredibili esibizioni e con cui animeranno la serata non deludendo certo le aspettative delle centinaia di fan accorsi. Il catalogo dei Clutch è talmente ampio che sono in grado di suonare canzoni dai loro 13 album in studio ogni sera senza suonare lo stesso set due volte, per gioia di chi li vede più volte nello stesso tour. Oggi per noi, in questo Fabrique finalmente pieno nella parte messa a disposizione per il concerto, hanno suonato una potente setlist di 20 canzoni con il coinvolgimento totale dei fan per tutta la durata dello spettacolo e l’unica cosa che sarebbe stata meglio è se avessero suonato più a lungo, perché davvero non stancano mai e ne vorresti ancora e ancora del loro hard rock funky blues o come dir si voglia. La prima canzone è stata “Slaughter Beach”, primo singolo estratto dall’ultimo album, un brano potente che arriva direttamente da un universo parallelo e con la sua struttura spavalda travolge con le sue sonorità dirette e lineari. Aprire la serata con ” Burning Beard” e andare in ” Struck Downs” è stato un inizio perfetto per questo set e l’energia nel locale sale subito vertiginosamente. Tim Sult alla chitarra lo fa sembrare così facile, dondolando avanti e indietro mentre strimpella la sua chitarra con perfezione, offre sempre quel suono in studio agli spettacoli dal vivo e non perde mai un colpo. Dan Maines al basso spinge quella fascia bassa come nessun altro e sorride al pubblico divertendosi. Jean-Paul Gaster alla batteria è uno spettacolo da vedere e da sentire. A volte sembra che stia parlando alla sua batteria mentre suona, ma sta solo facendo in modo di suonare con una tecnica impeccabile. Questi ragazzotti amano quello che fanno e si vede e il locale scatenato li ricompensa ampiamente cantando ogni singola parola di ogni canzone. L’istrionico Neil Fallon sa che i fan vogliono sempre ascoltare le canzoni più vecchie, ma suonare quelle nuove è altrettanto importante, e i Clutch sanno trovare il giusto equilibrio tra un brano proposto e l’altro, senza annoiare mai, anzi, la domanda che sorge spontanea è: chissà quale sarà il pezzo successivo? Hanno eseguito una serie di brani dai loro primi album, tra cui “Rats”, “A Shogun Named Marcus”, “Sucker for the Witch“ e la sfuriata rock di “H.B. Is in Control”, sicuramente tra i momenti salienti della serata, dove il pubblico si è scatenato in un pogo saltellante sfrenato. La band ha suonato i brani preferiti dai fan di vecchia data, la rocciosa “Earth Rocker” per citarne una su tutte ma ha proposto anche brani relativamente più recenti come “In Walks Barbarella” e “Ghoul Wrangler” da ‘ Book of Bad Decisions’ del 2018. Oltre l’opener ne suoneranno altre di canzoni del nuovo album: l’ipnotica “Nosferatu Madre” e la traccia sperimentale “Skeleton On Mars” dove Neil usa un theremin che dona un accenno mistico al brano. “Green Buckets” invece si muove su uno stile atmosferico carico di groove ammiccante, dove la batteria si libera leggera sulle note calde e ruvide del chitarrista. Una canzone brillante e affascinante, tra le mie preferite. I tre musicisti fanno sembrare tutto facile quando suonano le loro canzoni dal vivo, ma sappiamo che ci vuole abilità e dedizione per raggiungere la quasi perfezione che offrono. La voce e i testi di Neil si fondono perfettamente con la musica e creano qualcosa di diverso da qualsiasi altra cosa nel mondo della musica. Brevissima pausa prima dell’encore con “Electric Worry” che presenta tutti i connotati del sound Clutch: riffing serrato, arpeggi dissonanti, ripartenze esplosive, cambi di registro del frontman, assolo e si martella sul refrain da manuale. Togliamo finalmente il piede dal pedale, tiriamo su il freno a mano e riprendiamo fiato dopo le ultime tre serratissime ore appena trascorse.
Terminata la lettura di questa recensione spero che chi non li conosceva ancora i Clutch li recuperi in fretta e furia mentre per chi li conosce già, beh, che dire, fortunati noi che eravamo qui. Ricapitolando, quindi, vi starete chiedendo: cosa fanno i Clutch: Stoner? Ni, diluito rispetto a ciò che ci è stato insegnato dai maestri del genere. Southern rock? Già meglio, ma, anche qui, i dubbi restano. Hard Funky? Si certo, ma non solo. It’s only fucking hard rock! And we like it!
Clicca qui per vedere le foto dei CLUTCH al Fabrique di Milano (o sfoglia la gallery qui sotto)
CLUTCH – la scaletta del concerto al Fabrique di Milano
Slaughter Beach
Burning Beard
Struck Down
Rats
Sucker for the Witch
H.B. Is in Control
Nosferatu Madre
Walking in the Great Shining Path of Monster Trucks
50k unstoppable watts
In Walks Barbarella
Skeletons on Mars
Green Buckets
Earth Rocker
The Elephant Riders
Abraham Lincoln
A shogun named Marcus
Ghoul Wrangler
Encore
D.C. Sound Attack!
Electric Worry
Impetus