Articolo di Umberto Scaramozzino
I Deadletter chiudono la travagliata ventesima edizione di Apolide, il festival che fino allo scorso anno popolava i boschi dell’Area Naturalistica Pianezze, a Vialfrè, in provincia di Torino. Tocca usare il tempo passato, purtroppo, perché Apolide quest’anno ha perso il suo bosco, la sua casa, proprio quando forse ne aveva più bisogno.
Questa nuova avventura del festival piemontese era cominciata tra aprile e giugno con Apolide Drops, il format culturale che ha portato i seguaci di Apolide nel Canavese e nelle sue valli. Tre appuntamenti a ingresso libero (ai quali ne seguirà un quarto a settembre), strutturati nella triplice formula di un live, uno show, un talk. Tre performance al giorno, totalmente gratuite, offerte nel segno della sostenibilità e del rispetto dell’ambiente. Era poi tutto pronto per la grande festa del ventennale, finché lo sfratto dell’ultimo minuto non ha infranto i sogni – nostri e loro. Eppure Apolide resiste, perde la sua casa ma non il suo spirito e la sua missione. Trova rifugio nel cortile della Lavanderia a Vapore di Collegno (TO), la consolidata sede del Flowers Festival che in via del tutto eccezionale ospita anche quest’evento e quindi anche uno dei nomi più interessanti della bellissima lineup che gli organizzatori avevano assemblato per questo compleanno speciale.
I Deadletter, dallo Yorkshire, sono giovanissimi, sono talentuosi, sanno distinguersi. Nonostante rispettino come da copione tutti i nuovi stilemi dell’affollato revival post-punk – compreso un chitarrista che si muove in modo convulso e un frontman che sembra pronto a dare di matto e alzare le mani al primo malcapitato – hanno tutte le carte in regola per emergere dal marasma della scena musicale più calda degli ultimi anni. Innanzitutto al comando c’è Zac Lawrence, ragazzo inglese con i lineamenti di Mick Jagger, la fisicità di Iggy Pop e un’attitudine punk contaminata da un’aura molto più dark e misteriosa di quella che avvolge i colleghi più illustri. Un mix estremamente affascinante. Poi a fianco a lui c’è quel dinamitardo di Will King, che in diverse occasioni ruba la scena suonando la chitarra come se a ogni tocco delle corde venisse attraversato da una scarica elettrica e morso da una tarantola. A catturare lo sguardo c’è anche Poppy Richler, la sassofonista del gruppo, con le sue movenze ben più eleganti dei suoi compagni di band e la classe di chi suona con maestria lo strumento revival per eccellenza. Ogni elemento della formazione sembra aggiungere una diversa tonalità al colore dei Deadletter, che per essere agli inizi sembrano aver già trovato la loro dimensione.
Le premesse ci sono tutte: sanno stare sul palco, suonano bene, hanno pezzi validissimi. Sia l’EP Heat!, che i nuovi singoli lanciati nel corso dell’anno – The Snitching Hour su tutti – funzionano infatti divinamente. Purtroppo il pubblico è quello che è. Siamo in pochi, decimati dagli imprevisti e da un’infelice concomitanza di altri fattori. C’è un piccolo focolare, un cuore pulsante per i Deadletter, ma è evidente che per Zac e soci non è abbastanza. Mascherano un po’ di malumore e cercano di spronare la platea a fare di più, ma nonostante questo suonano con estrema professionalità e un’insperata maturità. Il risultato arriva, infatti l’encore viene invocato come nelle migliori occasioni: cantando a gran voce la canzone imprescindibile che manca all’appello. Si tratta di Zeitgeist, la prova più inconfutabile del talento nel songwriting. A questo punto, se i presenti hanno un minimo di gusto, passeranno i giorni seguenti a cercare di convincere amici e conoscenti ad andare a vedere i Deadletter nelle prossime due date, Milano e Bologna. Ché queste piccole band inglesi vanno intercettate subito, a inizio carriera, quando hanno tanto da dimostrare e senza l’hype imperante a distorcere tutto.
Il saluto ad Apolide è dolceamaro, ma è un arrivederci col cuore pieno di speranza. Innanzitutto che un esempio così virtuoso venga supportato come si deve. E quando si parla di esempio virtuoso si parla della possibilità di vivere un’esperienza completa, ricevendo anche un servizio che passa anche dalla qualità e dall’attenzione ai dettagli. Della possibilità di destreggiarsi tra più palchi e scoprire nuovi artisti. Ma anche della possibilità di usare braccialetti contactless ricaricabili, distribuiti gratuitamente e utilizzati per pagare senza code, senza sprechi, senza token, senza truffe. Di bere e mangiare bene a prezzi onesti. Insomma, di partecipare ad un festival, per l’appunto. La speranza è quindi che il claim “Life in the woods” risorga, ancora una volta. Che la musica di artisti provenienti da tutto il mondo torni a scorrere come linfa grezza nello xilema degli alberi, nei boschi delle valli piemontesi. Che tutti gli apolidi, amanti della musica senza cittadinanza culturale, trovino nuovamente la loro casa nei boschi. E magari, chissà, per una volta potrebbero mettere radici?

