Articolo di Silvia Cravotta | Foto di Andrea Ripamonti
Si può essere colpiti dalla sindrome di Stendhal guardando un concerto, e non solo un’opera d’arte? Ci si può sentire quasi male davanti all’assoluta bellezza di una esecuzione scenica e musicale perfetta, che ti fa completamente dimenticare il mondo fuori per un’ora e mezza di pura estasi indie rock? Perché, se possibile, è decisamente quello che è successo ieri sera ai Magazzini Generali di Milano per l’unica data italiana del tour dei dEUS. I cinque di Anversa sono finalmente tornati, a quattro anni di distanza dal loro ultimo live nel nostro Paese, con in mano l’ottavo album in studio, How to replace it, atteso per ben undici anni. Chi pensava che i dEUS avessero appeso al muro i microfoni e tutti gli strumenti che popolano le loro canzoni, è stato brutalmente smentito. I dEUS ci sono e sono in fottutissima forma.
La verità è che le cose belle richiedono tempo, e cura. Soprattutto se sei un pignolo impegnato su mille progetti artistici come Tom Barman. E ancor di più se la band che guidi, dopo oltre trent’anni di carriera, non vuole certo smettere di sperimentare, contaminare generi e cesellare i propri lavori come ha sempre fatto dall’inizio degli anni Novanta, pur nell’avvicendamento dei suoi vari componenti. E così da Following Sea del 2012 abbiamo dovuto aspettare il febbraio scorso per ricominciare a parlare di loro. Bisogna dire che ne è valsa la pena. D’altronde lo avevano detto che non vedevano l’ora di suonare i pezzi nuovi dal vivo e questi cinquantenni sono arrivati tra noi carichi di energia, rilassati e così uniti da presentarsi sul palco come un corpo solo, senza distinzioni tra l’uno e gli altri. Tutti assolutamente protagonisti.

È stata una serata strana dove tutto è partito in sordina, per poi esplodere. La gente è arrivata alla spicciolata, tanto da far temere per qualche momento che sarebbe finita con il locale mezzo vuoto. Ma a inizio concerto non sarebbe potuto entrare più neanche uno spillo, con parterre e balconata al gran completo. A riempirli i giovani degli anni Novanta, tutti abbondantemente sopra il mezzo secolo ma con più entusiasmo e voglia di birra di molti Millennial. Qualche viso fresco ogni tanto si è intravisto ma erano quelli di figli che accompagnavano – non sempre con grande entusiasmo – i propri padri. D’altronde anche questa è educazione e non si può lasciarli a casa ad ascoltare certa robaccia che gira online. Un giorno li ringrazieranno.
A scaldare il palco ci hanno pensato i Dirk, praticamente una versione giovane dei dEUS. Anche loro belgi, una delle più acclamate band indie del Paese, con all’attivo due album di successo dal 2018 ad oggi. I quattro salgono sul palco con l’entusiasmo e la freschezza della loro gioventù e iniziano a pestare di brutto sui loro strumenti. Ci sanno fare, il pubblico c’è e canzoni come No si fanno apprezzare e ballare anche a un primo ascolto. È il loro primo concerto in Italia e raccontano con entusiasmo della loro visita sul lago di Como. Ringraziano i dEUS per l’opportunità offerta, salutano il pubblico e lasciano la scena ai tecnici.

Ci vorrà una mezz’ora perché sia tutto pronto. Ma alle ventuno e trenta, con alle spalle una scenografia spartana ma tanto in fondo non serve altro, tutto può finalmente iniziare. L’attacco è doverosamente quello dei tamburi suonati dal batterista Stéphane Misseghers, sfondo inconfondibile che fa di How to replace it una canzone maestosa e solenne, quasi orchestrale. Il parlato sussurrato di Tom si insinua tra le percussioni e cresce fino a trasformarsi in un canto mai urlato, con una texture oscura sugli effetti spiazzanti del lockdown (tema ormai immancabile in tutti gli album usciti dal 2020 in poi). Un breve saluto in italiano – Tom tirerà fuori ogni tanto qualche frase nella nostra lingua durante tutto il concerto – e poi si cambia subito registro con Must have been new, primo singolo dell’album, una canzone costruita su un ritmo che sa di valzer con un sound trascinante e solare, che in fondo in fondo ti sta dicendo che il buio può essere sconfitto dalla luce.

Constant now è il primo pezzo in scaletta pescato da un altro album e con lui comincia a farsi notare il violino elettrico di Klaus Janzoons, meraviglioso accompagnatore di diversi momenti del concerto con tutti i suoi strumenti. In questo caso, come in quelli successivi, le canzoni degli altri album si inseriscono con una tecnica stile Tetris nella linea musicale della serata: incastri perfetti, canzoni che suonano giuste una dopo l’altra, un fil rouge in puro stile dEUS. Discorso più che mai valido per The Architect con la sua intro radiofonica e il ritmo piacevolmente sincopato.

È da questo momento che la serata comincia a montare, e lascia la sordina di cui si parlava prima. Il pubblico, rimasto fino a questo momento attento ma pacato, comincia a riscaldarsi e Girls keep drinking, con le sue potenti schitarrate e le venature elettroniche, offre l’occasione perfetta per cominciare a muovere teste e corpi. Si sente che l’aria sta cambiando e anche sul palco Tom e soci lo sentono e sembrano caricarsi anche loro dell’elettricità che si percepisce tutta intorno. Spettatori e musicisti sembrano unirsi sempre di più. Man of the House, con la sua ricca linea di synth e i suoi appelli anti-tecnologia, arriva nel momento giusto per esaltare tutti nonostante il suo inquietante “they’re watching” finale.
Worst case scenario arriva giusto in tempo per riportarci alla mente la ruvida bellezza del primo album che ha portato i dEUS al successo. A quasi trent’anni dalla sua uscita, nel 1994, e nonostante il richiamo a Little Umbrellas di Frank Zappa del ’69, è una canzone che ancora suona moderna come lo era nel 1994. Un momento flashback della fase iniziale e sperimentale del gruppo, cui hanno fatto seguito molte altre, con inevitabili ed evoluzioni ed oscillazioni tra rock, pop e melodico ma che non è detto siano un male. Anzi. Come Pirates e 1989, due delle canzoni meglio riuscite dell’ultimo album, la prima con il suo ritmo ondeggiante e la seconda con il suo sound anni Ottanta e il racconto di un anno molto delicato, non solo per il mondo (“wall”) ma anche per Tom che, appena diciassettenne, perse il padre (“fall”). La parte vocale che nella canzone è di Lìes Lorquet tocca a Stéphane, come farà poi in altre occasioni, così come faranno il bassista Alan Gevaert e il chitarrista Mauro Pawlowski. Sulla scia, Faux Bamboo, una di quelle canzoni perfette per essere cantate da tutti durante un concerto.

Il momento Instant Street si può dire quasi struggente. La ballata romantica che ti stai godendo lentamente cambia e si trasforma in una infinita e bellissima schitarrata rock che avvicina tutti i musicisti. Un crescendo che in versione live stordisce ed emoziona non solo il pubblico ma anche chi sta sul palco. C’è da dire che questo è stato uno dei pochi momenti in cui si sono visti telefonini in aria: a rendere magica questa serata ha contribuito tanto il fatto che – rispetto a quello cui siamo ormai abituati – il concerto si è visto davvero live, senza il consueto muro di cellulari a ostruire la vista. Vai a capire se è una questione di età dei partecipanti o semplicemente che chi c’era si voleva godere il momento che stava vivendo. Teniamo valida questa seconda ipotesi, sperando che ricapiti di nuovo.
C’è solo il tempo di qualche sorso d’acqua (che in alcuni casi è stata sostituita dal vino, con tanto di brindisi verso il pubblico) che parte il ritmo funky di Fell off the floor, man e sullo stesso stile la spezzettata Simple pleasure, voci, suoni e tonalità che si rincorrono e si mischiano in continuazione.
Con Quatre mains, la prima canzone in francese della band, lasciamo Milano e ci spostiamo sul lungomare di Marsiglia per diventare i protagonisti di un inseguimento dentro una spy story dal sapore retrò. Sun Ra è il momento perfetto per dare spazio alla chitarra di Mauro. È il momento di uscire per rientrare pochi minuti dopo per gli encore, affidati a due splendide ballate come Love breaks down – dove sfido a non ondeggiare cantando “yeeeh-eeeh” – e Bad timing, con i suoi violini distorti in un su e giù dalle sonorità rockeggianti.
Finisce così, le luci si spengono. Unica pecca di questo concerto: i dEUS salutano velocemente con la mano e non riappaiono più. Un risveglio brusco da un sogno, un finale che lascia interdetto più di qualcuno che infatti rimane fermo fino a che le luci accese e i tecnici sul palco non fanno chiaramente capire che è ora di tornare a casa. Il concerto è finito, andate con i dEUS.
Clicca qui per guardare le foto del concerto dei dEUS a Milano (o sfoglia la gallery qui sotto)
dEUS – La scaletta del concerto di Milano
How to replace it
Must have been new
Constant now
The Architect
Girls keep drinking
Man of the house
Worst case scenario
Pirates
1989
Faux Bamboo
Instant street
Fell off the floor, man
Simple pleasures
Quatre mains
Sun Ra
Encore:
Love breaks down
Bad timing
