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Reportage Live

CITY And COLOUR in concerto a Padova: lo voce di Dallas Green è il catalizzatore emotivo perfetto

City and Colour | Foto instagram @cityandcolour_official | Credits lucaskoronich

Articolo di Umberto Scaramozzino

Dopo tre anni, il progetto City and Colour torna in Italia, per una data unica al Parco della Musica di Padova, il 3 luglio 2023. Il loro concerto al Teatro dal Verme di Milano, nel febbraio del 2020, fu uno degli ultimi spiragli di luce prima del covid, ma oggi Dallas Green a la sua band tornano nel nostro Paese con un album in più sulle spalle (“The Love Still Held Me Near”) e davanti a un pubblico ancora più consapevole del privilegio di poter assistere a una serata del genere.

Dallas è semplicemente un artista di un’altra categoria. Indipendentemente dai gusti, dal background, o dalla propria esperienza pregressa con la musica dal vivo, vederlo coi propri occhi e sentirlo cantare con le proprie orecchie spinge a rivedere un po’ tutti i metri di giudizio. Intanto ha “Meant To Be”, la traccia perfetta per cominciare un live, e non ha paura di usarla. La venue gioca da subito un ruolo fondamentale, perché proprio in un contesto come quello delle rassegne estive, nelle quali avere una buona acustica sembra ormai appannaggio di pochi miracolati, il Parco della Musica ne esce in maniera eroica. Il posto, si sa, è bellissimo, ma i suoni di questo show speciale sono esattamente ciò che un fan di un progetto raffinato come City and Colour dovrebbe pretendere. La voce di Dallas arriva potente, cristallina ed espressiva. Le chitarre si distinguono – giuro, accade ancora – e la batteria riesce a stare al suo posto. In due parole: un sogno.

Dallas si muove talmente bene sul palco che sembra riesca a percepire l’esatto effetto prodotto dalle luci alle sue spalle, in modo da danzarci insieme, creare la propria iconica silhouette nera stagliata su sfondo rosso e dare così maggior enfasi alla sua intensa interpretazione. Che poi, diciamocela tutta: quando hai una voce del genere, potresti anche essere di cartongesso e andrebbe bene lo stesso. Il Parco della Musica diventa una mente alveare soggiogata da quell’ugola, al punto che nei momenti più intimi dello show anche le cicale sembrano interrompere il loro frinire selvaggio. Se siete innamorati, in quel momento non potete far altro che desiderare una mano da stringere. Se siete tristi, in quel momento non potete far altro che lasciarvi andare. Se siete felici, non potete far altro che cercare di cristallizzare quel momento. Il catalizzatore emotivo perfetto.

John Sponarski alla chitarra e Erik Nielsen al basso mettono in piedi un affascinante side-show, con i loro super outfit e le poste combinate. Suonano divinamente, come anche Leon Power alla batteria e Matt Kelly alle tastiere e alle chitarre, in un lavoro corale degno della musica creata da Dallas. Sembra una di quelle serate in cui se lasciassimo cadere del pane con burro e marmellata, cadrebbe dal lato del pane e se inserissimo una penna USB nel PC entrerebbe al primo colpo. Niente può andare storto. Di sicuro non Dallas, che su pezzi come “We Found Each Other in the Dark” e “Astronaut” è talmente preciso da voler quasi sperare in una piccola stonatura, giusto per restare coi piedi per terra.

Qualcuno urla con coraggio “Rain When I Die”, chiedendo a gran voce la straordinaria cover degli Alice in Chains che Dallas propose in occasione del Founders Award del MoPOP di Seattle, nel 2020. Nonostante quella performance valse all’artista canadese l’epiteto di “Dallas in Chains”, il brano non compare in setlist, fortemente concentrata sulla promozione dell’ottimo “The Love Still Held Me Near” che chiude il primo set con “Fucked it Up”, “Hard, Hard Time” e “Bow Down to Love”, con una struggente digressione su “Hello, I’m in Delaware”.

L’encore è di quelli che necessitano un disclaimer: “fate occhio, ché sto per darvi il colpo di grazia”. Perché tra la romanticissima “The Girl” – qui tagliata del segmento full-band – e la struggente “Coming Home”, direttamente dall’album d’esordio “Sometimes”, la situazione è difficilmente sostenibile. Da aggiungerci “This Could Be Anywhere in the World” degli Alexisonfire (l’altro fondamentale progetto di Dallas Green, oltre al meno noto “You + Me” insieme a Pink) e la mazzata finale: “Sleeping Sickness”.

Un encore del genere lascerebbe tramortito anche il più duro tra i cuori di pietra, figuriamoci sull’ascoltatore medio di City and Colour. La verità è che sentire Dallas dal vivo regala una di quelle sensazioni che oggi son sempre più rare: quella di ascoltare una voce unica, insostituibile.

Ci si entusiasma per dei braccialetti colorati che si illuminano a tempo, per i palchi in fiamme e per ledwall degni di Times Square, ma ci si può ancora infervorare per nient’altro che una voce? Magari per una di quelle voci che dovrebbero entrare nel Patrimonio Mondiale dell’umanità, ma che per qualche motivo – e forse per fortuna – restano e resteranno privilegio di pochi.

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