Articolo di Umberto Scaramozzino
C’era tanta attesa per il ritorno dei Bad Omens in Italia, assenti dal nostro Paese da troppi anni. Basti pensare che il concerto, originariamente previsto al Legend Club di Milano, è stato spostato ai Magazzini Generali dopo un sold out fulmineo, a cui ha fatto seguito un secondo tutto esaurito, altrettanto rapido. E la scia di richieste per ulteriori biglietti non si è fermata, tanto da far chiedere: fin dove avrebbero potuto spingersi?
Il motore trainante di questo successo è sicuramente l’ultimo album in studio dei Bad Omens, il superlativo “The Death of Peace of Mind” che è uscito nel 2022 e si è imposto come uno dei dischi alternative metal più interessanti dell’anno. Un raccoglitore di singoli che ha quasi i contorni di un solidissimo greatest hits e che sembra pensato per essere suonato dal vivo. I Bad Omens sono ben consapevoli dell’importanza di questo materiale, che tra i tanti meriti ha anche quello di aver staccato la band dai frustranti paragoni con i Bring Me The Horizon dell’era metalcore, andando a delineare quel “sound unico” che il frontman Noah Sebastian insegue fin dalla fondazione del progetto. “Vorremmo che questo fosse il disco con cui le persone ci scoprono, quando entrano in contatto per la prima volta con noi”, è il mantra delle interviste dell’ultimo biennio, nelle quali i Bad Omens si presentano profondamente fieri di ciò che hanno prodotto, ma anche fiduciosi per il futuro tracciato.
Scelgono di avviare lo show di Milano con la doppietta più esplosiva del nuovo arsenale: “Concrete Jungle” e “Artificial Suicide”. Che è come scegliere di iniziare una corsa campestre correndo i primi cento metri come Bolt alle Olimpiadi del 2009. Noah si presenta con passamontagna, dolcevita e guanto di pelle sulla mano sinistra. Perché un guanto solo? Stando alle dichiarazioni di Noah è solo una scelta di stile, un carattere distintivo per il suo look. Il fatto che anche Luke Skywalker in Star Wars indossi un guanto simile, sulla stessa mano, è solo un caso? Probabilmente no e Noah è un metallaro nerd.


Senza bisogno di una richiesta esplicita dal palco – ormai prassi per ogni frontman di qualsiasi genere heavy – al centro del club milanese si apre una voragine spontanea, che mette a dura prova gli spazi vitali a disposizione dei partecipanti. La scelta di settare così il tono del concerto è vincente, perché il grado di coinvolgimento della platea si assesta fin da subito su livelli astronomici, andando anche a sopperire alle mancanze sonore. La voce di Noah ha spesso una definizione spettrale e finisce col perdersi nel mare di cori. Un peccato quasi mortale, dato è tra le più ricche, potenti ed espressive del metal contemporaneo. Un range vocale clamoroso: passa da clean vocals ammalianti al growl con una tale naturalezza che sembra che a controllare i suoni delle sue corde vocali ci sia un mixer nascosto. Nei pochi momenti in cui l’impianto rende giustizia al suo talento, questa constatazione va a braccetto con l’ottimo lavoro fatto con i tanti effetti dai quali, ormai, l’intero genere sembra non poter più prescindere. L’acustica penalizza anche la batteria di Nick Folio, che nonostante questo suona come un martello pneumatico. Va leggermente meglio a Nicholas Ruffilo e Joakim Karlsson, composti e impeccabili ai lati del palco, pronti a dar manforte al loro leader nei momenti di headbanging sincronizzato.
La performance è intensa, ma non dura molto: supera a malapena i sessanta minuti. In questa ristretta finestra temporale sono davvero poche le divagazioni dal terzo album. I primi due capitoli discografici sono ormai storia passata, perché per i loro autori fanno parte di una fase di costruzione fondamentale, ma stilisticamente già da deporre. Del primo capitolo discografico, infatti, trova posto solo “Glass Houses” – che originariamente avrebbe dovuto chiamarsi proprio “Bad Omens”, scelto poi come nome del gruppo – mentre del successivo “Finding God Before God Finds Me” vengono proposte “Mercy”, “Limits”, “Never Know”, ma soprattutto “Dethrone”, un pericolo pubblico di canzone. “The Death of Peace of Mind” tiene in scacco il resto della scaletta. Non mancano i momenti chill, come la title-track e “Who are you?”, e quelli dedicati ai singoli da classifica come “Like a Villain” e “Just Pretend”, i primi grimaldelli per un’imminente irruzione nel rock mainstream.
Questo album è quasi come un secondo debutto, una gloriosa rinascita in cui i Bad Omens sono finalmente certi di come vogliono presentarsi al mondo. Anche dal vivo si ha l’impressione di vedere una band che si mostra per la prima volta. La manifestazione perentoria di chi ha la consapevolezza di aver creato qualcosa di rilevante – per sé, per i fan, per la scena – e vuole urlarlo al mondo.

