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Deadburger Factory – La Chiamata

La Deadburger Factory sugli scudi. La Deadburger Factory al ritorno. La Deadburger Factory e il nuovo album. Sempre e soltanto loro che, dopo sette anni dal monumentale, mastodontico, triplo, “La fisica delle nuvole” (ieri e oggi, sempre Snowdonia Records), rimodellano la loro visione di avant-rock, cambiano approccio e ridisegnano l’ennesimo Sacro Graal che annichilisce, svilisce e sfianca la contemporaneità sovrana, scucendo e imbastendo un approccio proprio, visionario, totale, unico. Vittorio Nistri con la sua famiglia, che nasce nel 1996 e che tutt’oggi si evolve, matura, cresce e si espande nuovamente.

“La chiamata”, sette brani, cinquanta minuti, produce Snowdonia Records. Suona, canta e danza la Deadburger Factory. Lo sciamenesimo inteso come arte, inteso come processo evolutivo della specie umana, oramai artefatta, plastificata e appiccicata nei centri commerciali, nelle loro code lentissime, nelle loro code velocissime, nelle loro code lunghissime, senza ordine, il criterio del compro tutto, soldati allo sbaraglio, saldi, soldi, il consumismo avvilente (lo cantava nel 1985 Robert Wyatt in “The Age Of Self”), scaffali, pacchi, pacchetti, la bava dietro le vetrine, le scale mobili, i fast-food, mangia subito, uno sciamano barbuto e il suo tamburo, la sua fede, totalmente avulsa dalla società, l’estemporaneità negli occhi del voglio tutto e subito, un’intera storia egregiamente disegnata da Paolo Bacilieri, in un libretto di 68 pagine che accompagna il sesto album della Deadburger Factory, e una sfilza di ospiti illustri tra batteristi, jazzisti e cantanti (Alfio Antico, Enrico Gabrielli, Cinzia La Fauci, Lalli, Davide Riccio, Edoardo Marraffa, Zeno De Rossi, Bruno Dorella, Cristiano Calcagnile, Simone Vassallo, Marco Zaninello, Silvio Brambilla, Lorenzo Moretto e Pino Gulli).

Il tamburo al centro commerciale. Il tamburo al centro dell’universo, al centro del nuovo album, testimoniato soprattutto dalle due batterie onnipresenti in ogni brano, come se Genesis P-Orridge cantasse sulle spalle di Werner Diermaier, è l’industrial che fotte il kraut-rock nella reinterpretazione della “We Insist! Freedom Now Suite” di Max Roach (“Tryptich”), il tribalismo, logicamente sciamano, di “Tamburo sei pazzo”, in una meravigliosa lettura di Alfio Antico, poi si affilano le chitarre che diventano taglienti e che lacerano le inclinazioni (free) jazz che richiamano brevemente all’ultima stella nera del Duca bianco (“La chiamata”), e ancora il funk rock di “Manifesto cannibale” e la coda da brividi della conclusiva “Blu quasi trasparente”. Maledette rockstar (cit.), è tutto sempre dannatamente troppo alto.

La Deadburger Factory über alles. (9)

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