Dani Male al suo secondo disco, “La Mitomania”, quaranta minuti, dodici brani. L’uomomaterasso, the one man bed. Dani Male mette un piede sulla merda, mentre Bugo, quello vero e cazzuto, è lì, dietro la finestra, che sbava con gli occhi lucidi e con un bicchiere nella birra. Lo-fi, non lo-fi, pop, anti-pop, Dani Male ci sa fare. Pochi cazzi. E non solo perché la title-track è un calcio nei coglioni, una droga pesante che ti schiaccia la testa, un fiume in piena con tanto di chitarrina fuzzosa in pieno stile primo Bugatti, ma perché tutto l’album è un caleidoscopio di colori, di rumori, di odori, di suoni che danzano amorevolmente tra le bianche nuvole della musica italiana, le pulsazioni morbide (“La novità”), quelle acustiche (“La canzone di Tenco”), quelle elettriche (“4 frecce” e “Colpo di tacco”). Ci sono Bugo, Morgan, e c’è il cantautorato degli anni ’70. Il pop è tra noi. Il pop vive e non muore. Grazie al cielo.
Dani Male è un pagliaccio che ci prende per il culo, che ci sollazza, ci svuota e ci riempe con le sue rime demenziali, con la sua ironia da scemo, con il suo non-sense, con la sua poesia sconcia e tarocca. “La mitomania” è un fiore senza petali, un cuore senza arterie, un piccione senza catrame, una casa senza tetto, una macchina senza ruote, è un piccolo, grande, capolavoro nella Modena sotterranea. “Seguo i tuoi concerti, compro Trauma Turgido, tu non sai chi sono io”.
Francesco Diodati


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