È un disco complesso, intrigante e molto autobiografico, l’esordio solistico di Andrea Appino chitarrista e voce degli Zen Circus. Le quattordici canzoni de “Il testamento” sarebbero state adatte anche per un lavoro del trio pisano, ma il contenuto di questi brani è troppo soggettivo, per cui Appino ha preferito fare tutto da solo, per mettere a nudo la propria intimità, preferendo non condividere questo processo con i suoi sodali.
Appino, infatti, si è fatto accompagnare da Giulio ‘Ragno’ Favero (basso) e Franz Valente (batteria) de Il Teatro degli Orrori e da Rodrigo D’Erasmo (Afterhours) al violino. La scelta di questi musicisti è dovuta anche alla scelta che Appino ha fatto rispetto al sound, dato che ha messo in secondo piano l’approccio da busker, preferendo un approccio maggiormente improntato su trame elettriche, in molti casi vicine a quelle utilizzate dagli ultimi Teatro degli Orrori, e non a caso il lavoro è stato prodotto dallo stessa Favero. I testi sono tutti di notevolissimo spessore, densi, pieni di metafore, per certi versi ermetici, perchè in più occasioni utilizza immagini spiazzanti e irriverenti non verso il pubblico, ma verso la sua famiglia. Già, perché “Il testamento” ha tre temi portanti: la schizofrenia, la famiglia e il suo ego. Sicuramente queste canzoni hanno svolto per Appino una funzione catartica.
Grazie ad esse il frontman degli Zen Circus si è liberato o ha esorcizzato molti fantasmi interiori, urlando frustrazioni, drammi e paure che vengono da lontano. In pratica è come se avesse deciso di andare in analisi e sfogarsi con lo psicoanalista di tutto ciò che ha nel suo inconscio. I brani più autobiografici ed introspettivi sono “Il testamento”, drammatico e liberatorio, “Passaporto”, “Specchio dell’anima”, rabbiosa e rancorosa, “Fuoco” nel quale torna il tema dell’anatroccolo che diventa cigno, “I giorni della merla”, altrettanto drammatica e “Schizofrenia”, che parte da un omaggio a Morricone ed evolve in un punk sincopato. Da segnalare poi l’ottima “La festa della Liberazione”, liberamente tratta da “Desolation row” di Bob Dylan.
Un esordio difficile, di non facile approccio che va ascoltato con un’enorme volontà e predisposizione di ascolto, dunque assolutamente apprezzabile.
Vittorio Lannutti

