Un disco di amore e di tormenti, libero nel contenuto e nella forma, lontana dalla frenesia discografica che spesso restringe le possibilità con cui immaginare un progetto musicale. È il nuovo album dei Mahout, My Heart Is A Stoner, uscito da poco per La Tempesta Dub.
Ciao ragazzi, è appena uscito il vostro disco “My Heart Is A Stoner”, che ha visto una gestazione abbastanza lunga visti i tempi in cui si muove la musica oggi. Ci raccontate come nasce l’album? Quanto è cambiata l’idea del disco in questi anni?
Benz, Emi.: qui Emi e Benz dei Mahout.
E: Di Mahout fino a un mese fa, esisteva solo un quasi introvabile EP, Streetwise Demo, registrato pochi anni fa, grazie al quale la band ha potuto fare “rodaggio” live su palchi anche prestigiosi, aprendo per artisti importanti della scena reggae internazionale.
B: Dalla produzione di My Heart Is A Stoner in poi, entro in scena io perchè Emi, che già conoscevo, mi chiede di produrlo.
Nel disco sono confluite le canzoni dell’EP e altri brani scritti successivamente in previsione di un full-lenght album.
Ci siamo concessi la possibilità di fare un lavoro con tempistiche e una concezione “pre-piattaforme”, dando quindi importanza al disco nella sua interezza che, infatti, rispetto alle tematiche, potrebbe quasi essere considerato un concept album.
Il focus principale del lavoro di produzione è stato quello di avvicinare stilisticamente brani scritti in periodi diversi del processo artistico che ha portato alla forma attuale del nostro sound. Quello che si sente nel disco è il risultato di questa ricerca.
Percepiamo sicuramente che l’idea del disco in quanto opera completa e compiuta che esprime la ricerca artistica proprio in quanto lavoro esteso su più brani non rientra nello zeitgeist di questo momento storico. Poco ma sicuro.
Leggiamo che il progetto Mahout vive con orgoglio il suo rapporto con la provincia, con il suo territorio. Come si converte tutto questo in musica e come condiziona un progetto musicale come il vostro?
E: Siamo originari di Pinerolo, piccola cittadina della provincia piemontese storicamente impregnata di sottocultura reggae che ha dato i natali alla più longeva band reggae in Italia, gli Africa Unite (con cui due di noi hanno suonato per anni), e ad una delle esperienze più brevi e intense del punk nostrano anni‘90, i Fichissimi. Cresciuti in questo contesto socio-culturale è stato naturale creare questo sound che è una fusione tra il reggae di stampo giamaicano e diverse altre influenze che spaziano dal punk californiano, al garage, al funk. Stilisticamente ondeggiamo continuamente fra morbidezza black e asprezza bianca.
B: Sicuramente essere cresciuti in una zona così fertile e prolifica a livello artistico come la zona del pinerolese e del torinese, e in anni di esplosione delle principali scene musicali che ancora oggi offrono spunti per la composizione della musica odierna, ci ha segnati in senso positivo. L’arte si fa sempre un po’ “come nani sulle spalle dei giganti” riprendendo e digerendo le esperienze di chi ha percorso la strada prima di noi.
I dieci brani vedono un fil rouge nel concetto della seconda possibilità e della rinascita. Insomma, per fortuna, c’è sempre speranza…è questo quello che volete comunicare?
E: Questo è un disco spirituale: parla di rinascita, via d’uscita, seconda possibilità. C’è una certa gioia nel guardare alla vita, un’attitudine a sublimare la rabbia e a ballare sulle macerie: l’abbiamo presa in prestito dalla Giamaica e dal reggae.
B: Ci sono momenti nella vita in cui si attraversano crisi che ci portano a trovare nuove strade e nuove forme. Tutti i brani del disco trattano queste tematiche, dove la rinascita e la seconda possibilità derivano sempre dalla trasformazione.
Dal punto di vista musicale il vostro è un mix molto particolare tra punk rock, reggae, suono brit ma vibes molto rilassate. Da cosa nasce questa “formula magica”? C’è qualche uscita discografica recente che ha ispirato qualche elemento del disco?
B: Il mix di generi musicali che crea il nostro sound deriva probabilmente dal fatto di essere cresciuti in una zona dove reggae e punk erano compresenti, come d’altra parte è successo in UK dagli anni ‘70 in poi. Sono due culture molto vicine per molti aspetti, è musica di struggle, di lotta, solo che il punk vede nella rabbia il motore e la soluzione mentre il reggae la trova nella sublimazione.
Noi definiamo la nostra musica punky-reggae ma a livello di vibes esprimiamo soprattutto la spiritualità che è tipica del reggae rispetto alla rabbia del punk.
Direi che l’ispirazione per i brani del disco potrebbe piuttosto arrivare dal passato o dal passato recente.
Alcuni flow della voce di Emi ricordano l’elasticità metrica di Dylan così come di alcuni artisti hip hop o trap.
Provincia sì, ma anche tanta internazionalità con collaborazioni di primissimo livello. Ce ne parlate?
B: Le collaborazioni internazionali nell’album sono nate da collaborazioni musicali e amicizie già consolidate.
Io, per dire, ho suonato per anni, per i loro tour europei, con i Rocksteady7, formazione newyorkese fondata da Dave Hillyard (The Slackers) e Larry McDonald (Gil Scott-Heron, Lee Scratch Perry, The Skatalites, Toots & the Maytals) e quindi pensare a Larry per le percussioni del disco è stato naturale.
Larry ha adorato i provini dei brani ed è stato felice di prendere parte al disco, le percussioni sono state registrate a New York e con lui abbiamo quindi lavorato a distanza.
Per Peter Truffa (New York SkaJazz Ensemble, Giuliano Palma & The Bluebeaters), che ha suonato le tastiere, è quasi la stessa cosa: fino ad una decina di anni fa Pakko (il nostro bassista) ed io suonavamo insieme a lui con i Young Lions, la band di Mr. T-Bone e anche con Emi ha sempre avuto un forte legame artistico e di amicizia. Peter ha vissuto in Italia per diversi anni e per un periodo a Pinerolo, dove torna spesso. Abbiamo registrato quindi le tastiere durante una sua visita pinerolese-torinese.
Fin dal primo ascolto ci immaginiamo molto facilmente che la vera anima di questi brani è su un palco. Avete già portato queste canzoni in live? Cosa ci si deve aspettare da un vostro live? Quale delle tante anime musicali emerge maggiormente?
B: La band è sempre stata attiva sul fronte live. Il concerto è per noi un momento fondamentale e cruciale del processo artistico, non solo, è nella nostra ottica un momento sociale importante di scambio di energia tra e con le persone, di vicinanza.
Il fatto di far ballare è un’esperienza sempre molto forte, quasi una missione, minimo una vocazione…Nel nostro live l’attitudine è punk ma le vibes sono quelle del reggae, che ci ha insegnato a sublimare i problemi della vita ballandoci sopra, un rituale collettivo insomma.
C’è un brano in particolare che considerate il vostro “manifesto”? Ce n’è uno a cui siete maggiormente legati per qualche motivo?
B: Un brano che riassume lo stile del progetto è Rudie e la si trova sul disco in una versione super minimale: abbiamo scelto infatti di farle rappresentare l’ossatura del nostro songwriting. È stata registrata in presa diretta, c’è solo Emi voce e chitarra, senza editing. Devo dire che siamo molto legati a tutti i brani per motivi diversi, ognuno porta una storia dentro di sè e per noi rappresenta qualcosa di importante della fase di scrittura o di produzione dell’album. Tra i non singoli ci fa impazzire Friday Night per dire, per come rappresenta la vita di provincia. Black Market ha un carattere speciale e spirituale e ci piace parecchio suonare live On a mountain. Potrei andare avanti…
In una frase conclusiva, il messaggio del disco al Pianeta Terra.
My Heart Is A Stoner è un disco pieno di amore e di tormenti, come abbiamo scritto nel post IG il giorno in cui è uscito. L’amore, nella sua accezione più ampia – e quindi comprendendo anche i concetti di passione e di cura-, è tutto. Servono, oggi più che mai, empatia e morbidezza. Bisogna recuperare la morbidezza come approccio alla vita, soprattutto gli uomini, devono recuperare il femminile, quel pezzo lì. Il (fake) machismo ha fatto il suo tempo e i danni li abbiamo visti ampiamente, nei secoli dei secoli.