Intervista di Michela Ravasio | Domande a cura di Giulio Taminelli e Jessika Bentivogli | foto di Bryan Kirks
I Bad Omens sono sicuramente una delle band in maggiore ascesa degli ultimi due anni. Poche ore prima del concerto tenutosi all’Alcatraz di Milano lo scorso 11 febbraio, siamo riusciti ad intercettare il chitarrista Joakim Karlsson, in arte “Jolly“, per scambiare con lui quattro chiacchiere.
Prima domanda: questa è l’ultima tappa europea del tour “Concrete Forever”. Com’è stato ritornare a suonare per i vostri fan europei?
È stato fantastico, soprattutto perché ogni volta che torniamo, riusciamo a suonare in locali sempre più grandi e migliori. Questo significa che possiamo portare al pubblico concerti sempre migliori e visivamente più interessanti, così che tutti possano avere il concerto che si aspettano da noi.
Essere riusciti a centrare parecchi sold out è stato molto gratificante, anche se alle volte dispiace. Essere riusciti a riempire un locale al massimo delle sue capacità significa che sicuramente qualche fan è stato costretto a rimanere fuori.
Per questi fan sono sempre dispiaciuto, ma è comunque un bene l’essere riusciti a riempire un locale, perché significa che la prossima volta potremo puntare ad un posto più grande e, di conseguenza, riuscire a far entrare più persone.
In questa parentesi europea del vostro tour e nel singolo V.A.N vi siete avvalsi della collaborazione di Poppy. Come vi siete conosciuti e come è stato lavorare con lei?
In realtà facciamo entrambi parte dello stesso management.
È nato tutto in un periodo in cui avevamo questa canzone (V.A.N) in mente, con una parte di Narrazione e un suono “figo”. Stavamo valutando chi chiamare ed è arrivata Poppy.
Le abbiamo proposto una collaborazione e le abbiamo spiegato più o meno cosa volessimo ottenere. Quando le abbiamo chiesto “cosa ne pensi?” ci ha dimostrato di aver compreso subito i nostri obiettivi, proponendo idee che ci sono piaciute subito. Praticamente ha dato una forma a ciò che avevamo in mente. È stata molto brava.
Gennaio vi ha visti impegnati nel vostro primo tour nelle arene, che avete intrapreso in compagnia dei bring me the horizon. Come avete vissuto questa esperienza? C’è un momento particolare, musicale o di vita, che vuoi condividere con noi?
Credo che questa esperienza ci abbia portato i concerti più grandi che la nostra band abbia mai fatto. Avere davanti quindicimila persone è stata un’esperienza molto diversa dal solito.
Devo dire che questo non ci ha condizionato troppo a livello di prestazioni sul palco perché siamo abbastanza bravi a mantenere la calma. Personalmente, una volta che metto le in-ear tutto diventa silenzioso. Quando suoniamo, rimango nella mia “zona meditativa” perchè so quello che sta per succedere. Così tutto è più facile, a prescindere che davanti a me ci siano trecento, tremila o trentamila persone. Poi, ovviamente, nel caso in cui riuscissimo in futuro a riempire da soli quelle arene, sicuramente tutto sarebbe diverso. Questo, in fin dei conti, era il tour dei Bring me the Horizon e noi abbiamo avuto la grandissima fortuna di potervi partecipare. Sono stati gentilissimi ad invitarci, oltre che molto simpatici e ospitali.
Poter vedere il loro show è stato davvero fantastico, perché questi ragazzi hanno la mentalità giusta per creare grandi concerti. Non risparmiano un centesimo pur di creare “robe fighe”. Sono stati di grande ispirazione.
A due anni dalla pubblicazione, Il vostro album “The death of piece of mind” continua ad essere un successo a livello internazionale. Quali credi che siano i “punti forti “che lo hanno reso così popolare?
Penso che sia diventato famoso perché è semplicemente un ottimo disco. Molte persone dicono che questo sia il nostro “primo vero disco” o che sia quello che ci ha permesso di diventare famosi ma, personalmente, credo che si sbaglino. Senza tutti i lavori precedenti, con i rispettivi punti di forza e di debolezza, non saremmo mai riusciti ad arrivare a questo risultato. Io le vedo solo come un ottimo passo nella nostra carriera, ma non per questo credo sia l’album definitivo o un punto di arrivo. Semplicemente, è un punto da cui ripartire per creare qualcosa di ancora migliore
Quale è stato, secondo te, il momento più importante della carriera dei Bad Omens? Il momento in cui avete avuto la sensazione che ce la stavate facendo?
Non c’è mai stato. Ovviamente rispetto a prima la nostra carriera è diversa, però se da fuori inteso dalla parte del pubblico molte cose possono sembrare cambiate, da “dentro” la situazione è rimasta praticamente la stessa. Stesso numero di amici, stessa voglia di fare musica, etc.
Come detto, non vorrei mai sentirmi “arrivato”, perché credo che nessuno “ce la faccia” davvero. Devi sempre lottare per fare di meglio e devi farlo per te stesso.
L’ultimo album ci è piaciuto prima che piacesse ai fan o alla casa discografica, perché ci avevamo messo tutto l’impegno possibile per realizzarlo.
L’unica sensazione che abbiamo sempre cercato e che continuiamo a cercare è quella che ci fa dire “Ok, questa canzone ci piace, abbiamo creato un buon pezzo”.
Non voglio dire che a me non piaccia suonare dal vivo, sicuramente è fantastico portare qualcosa di proprio al pubblico e vedere che piace, però credo che la sensazione che preferisco in assoluto sia proprio la consapevolezza, dopo tutta la fase del processo creativo, di aver creato un buon brano. È un tipo di sensazione che credo cercherò fino al giorno della mia morte
Forse sembrerà brutto, perché sembra che stia pensando solo a me stesso nonostante molte persone ci fermino, ad esempio, per ringraziarci di come la nostra musica li abbia aiutati in qualche momento difficile. Però penso che se prima di tutto non siamo soddisfatti e felici noi del nostro lavoro non sarebbe possibile portare buona musica e buone sensazioni al pubblico.
Una domanda più personale: spesso si dice che il metal europeo e quello americano siano differenti, come se fossero due dialetti della stessa lingua. Da svedese, come è stato inserirsi nel contesto musicale americano? Hai dovuto cambiare qualcosa nel tuo stile o ti sei trovato subito a tuo agio?
Sì e no.
Venendo dalla Svezia, sono cresciuto con i suoni del metal del mio paese e sono decisamente riconoscibili rispetto a quelli del metal americano. Dalla Svezia vengono grandi band come i Meshuggah o gli In Flames, entrambe formazioni dal suono ben riconoscibile a livello geografico. Essendo nato con simili influenze, è naturale che io abbia portato con me un determinato tipo di suono. Ad oggi continuo a preferire la musica europea a quella americana e forse questa è stata proprio la chiave del nostro sound particolare. Non che dico che dall’Europa venga solo roba buona, dico però che il mix di sonorità Americane ed Europee possa aver dato una spinta in più alla band. Una volta arrivato negli Stati Uniti, è stato davvero bello conoscere Noah -si riferisce al cantante dei Bad Omens-.Anche lui come me è sempre stato molto creativo ha sempre scritto tantissima musica che però aveva un sound differente dal mio, perchè lui è americano.
Una cosa che ho notato, però, è che con il tempo anche le “radici musicali” sono venute meno. Cerco di non prendere spunto dal lavoro di altri, cercando invece di lavorare per conto mio. Ogni tanto, mentre suono a caso in studio mi esce un giro particolare, qualcuno della band mi dice che può essere un riff e così comincio a lavorarci. Solo sul finale, delle volte, provo ad inserire qualche ispirazione dall’esterno, però queste ispirazioni non faranno mai da fondamenta alla mia musica.