Abbiamo intervistato Francesco Lorenzi, cantante e autore dei The Sun, in occasione della pubblicazione del loro nuovo singolo e videoclip “Le opportunità che ho perso”. Dopo due dischi con Sony Music, la band è tornata con l’album “Cuore Aperto” ad una produzione indipendente, come per i primi dieci anni di carriera, quando il gruppo era conosciuto con il nome di Sun Eats Hours ed esportava in tutto il mondo il suo punkrock in stile Offspring grazie a tournée internazionali. Quello dei The Sun, tuttavia, resta un ritorno alla produzione indipendente marcato da alcune sostanziali differenze con il passato: ce ne parla Francesco Lorenzi stesso.
“Le opportunità che ho perso” parla di scelte, responsabilità, consapevolezza dei propri errori: cosa ha ispirato questo testo e come metteresti in parallelo le responsabilità di oggi e di ieri?
Capire che ciò che vivevo nella mia vita non era soltanto un fatto personale e temporaneo mi ha richiesto tempo. Anni addietro non me ne rendevo conto, pensavo alla musica con leggerezza, facevo quel che mi passava per la testa senza riflettere troppo sulle conseguenze. La libertà però produce effetti seri. “Le opportunità che ho perso” parla di questo. Durante questi anni di cammino ho meditato a lungo sulla quantità di sofferenza presente in questo mondo. Ad un certo punto ho smesso di dire a me stesso che non ci potevo fare nulla, ho iniziato a chiedermi cosa potessi fare io per migliorare la situazione. Questa domanda fu una chiave per svoltare. Amare non è una questione di parole, ma di scelte. Amare significa non essere indifferenti, sentirsi parte degli altri, sentire che nulla è altro rispetto a noi, percepire e agire come fossimo una cosa sola. Siamo su questo ‘pianeta scuola’ anche per imparare questa lezione. Non va di moda dire quello che dico, ma è inutile girarci attorno: la nostra vita è perlopiù il risultato di azioni, atteggiamenti e intenti. “Le opportunità che ho perso” racconta ciò che sperimenta chi attraversa la vita senza aver amato, avendo creduto che tutto finisse con la morte. Invece per me è solo un altro inizio, la vita continua. E il passato condiziona il futuro. In modo determinante.
A dispetto della giovane età, siete sulla scena da un bel po’ di tempo! Com’è cambiata l’industria musicale dagli anni Novanta a oggi? Vi manca qualcosa del passato o, al contrario, preferite il modo di fare musica di adesso?
In questi 20 anni abbiamo lavorato sia con etichette indipendenti che major – oltre all’autoproduzione -, suonando in molti Paesi, dai piccoli club ad eventi di aggregazione enormi, perciò un’idea ce la siamo fatta. In giro è pieno di gente nostalgica per partito preso, che magari non ha mai lavorato seriamente nel mondo della musica. Io so di cosa parlo. Oggi internet ha dato opportunità impensabili ad artisti che 15 anni fa non avrebbero potuto far nulla. Non si è più strettamente dipendenti dalle etichette discografiche. Anche chi è realmente di nicchia può finalmente avere un pubblico, perché il web ha dato la possibilità di scoprire che ci sono comunque tante persone che amano generi o artisti che magari rappresentano solo lo 0,001% del mercato discografico e che prima erano automaticamente tagliati fuori. La qualità delle produzioni è migliorata e i costi si sono abbassati grazie a una molteplicità di fattori. E’ più facile raggiungere il tuo pubblico in modo personale – una volta che hai un pubblico – e se non vuoi piegarti a certi meccanismi puoi comunque fare musica contando sul fatto che riuscirai ad interagire con i tuoi fan anche se i tuoi brani non sono su Radio Deejay o se non sei dalla De Filippi. Oltre a questo, però, non ho visto migliorare altro. Anzi. Se da una parte si sono fatti passi da gigante nell’ambito tecnologico, ciò che si è perso è la qualità dei contenuti. Pare che la tecnologia abbia rincoglionito un bel po’ di gente. Spesso il successo oggi corteggia chi non ha nulla da dire. E questo avviene anche perché le etichette non possono più investire su chi ha davvero talento, il sistema cerca fenomeni da baraccone, masochisti o persone disposte a vestirsi di cinismo dalla testa ai piedi pur di attirare orde di teenager non più parlando ai cuori, ma muovendo le viscere di chi ascolta. Vedo continuamente artisti che sono come pacchi regalo vuoti: curatissimi all’esterno, ma desolanti dentro… dei debosciati, etimologicamente parlando. Inoltre, il numero di views di un video su youtube talvolta è inversamente proporzionale alla qualità del brano proposto. Forse perché avere relazioni vere è faticoso, e non vuol dire passare tutto il tempo online. E la discografia, tranne rari casi, ha smesso di coltivare i talenti diventando una semplice stamperia di cantanti prodotti nel mattatoio televisivo o che cavalcano la frustrazione per comprarsi case di lusso.
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Il videoclip del nuovo singolo è girato nel deserto del Negev; che significato ha per voi? In altre occasioni avete organizzato viaggi e concerti in Terra Santa o altri luoghi di conflitto: quali le principali difficoltà incontrate?
Il deserto del Negev è un luogo del cuore. Nell’autunno del 2014 siamo andati là per ritrovare silenzio e chiarezza dopo i 172 eventi della tournée di Luce, il nostro precedente disco. Lì ho sentito cos’era giusto fare con il nuovo album: tornare all’autoproduzione, cantare di fatti che nessun artista tratta, scegliere di percorrere ancor più la via stretta e impervia. Quando è stato il momento di girare i nuovi videoclip abbiamo scelto di fare una pazzia e tornare in quel deserto, perché la verità di quei luoghi si trasmettesse anche nelle immagini così come aveva fatto con la musica.
Torniamo spesso in Palestina e grazie alla nostra musica coltiviamo progetti di pace e fraternità, in particolare tra i più deboli e dimenticati. Le difficoltà? Dove manca pace, libertà ed educazione le difficoltà sono enormi. Ma non pensare che là siano messi peggio che qui. Le loro difficoltà si vedono con gli occhi, ma i cuori sono ancora umani, qui invece molto spesso le difficoltà sono nei cuori, che si sono induriti e non vedono se non loro stessi.
Dopo due dischi con Sony Music, per il terzo album “Cuore Aperto” avete scelto di tornare ad una produzione indipendente collaborando con l’etichetta/distribuzione digitale Artist First: quali sono le principali differenze nel processo artistico e professionale che porta alla realizzazione di un disco?
Nel nostro specifico e particolare caso le differenze sono poche. Anche con Sony, difatti, godevamo di una libertà invidiabile. Certo è che con questa scelta dell’autoproduzione gli unici a decidere cosa fare siamo noi. E’ sempre una questione di rischio e di responsabilità imprenditoriale: se una major paga per te, è chiaro che ha voce in capitolo; differentemente se sei tu a riprenderti oneri e onori, la scelta è in mano tua, su tutto.
Vi è mai capitato di sentirvi in qualche modo sfruttati o manipolati dall’industria musicale?
No. La discografia manipola e sfrutta chi si piega, o chi è fragile e cerca a tutti i costi un po’ di notorietà. Se vai a letto con una persona che non ti piace lo fai perché comunque pensi che sia meglio di niente. Io però non l’ho mai pensata così.
La vostra musica si ispira a valori cristiani che sono stati spesso il pretesto per attacchi dall’esterno. Un cosa che, pensando ad esempio al christian rock americano e a come vengano vissute più liberamente certe scelte all’estero, suona quasi anacronistica.
Dici bene utilizzando la parola “pretesto”. Pensa a quelli che hanno realizzato vignette nelle quali noi The Sun venivamo sgozzati, o a quelli che hanno infamato il nostro nome con le peggiori falsità senza conoscere nulla della nostra vita. Che senso ha? Questo tipo di odio cosa c’entra con la musica? Le nostre sono state – e sono – scelte libere. Siamo cambiati, che è sempre la cosa più difficile, rimanendo amici, cercando di esprimere la nostra verità. Non so perché, però per alcuni non è concepibile che dei cristiani suonino musica rock. Essere in un certo senso discriminati per questa scelta conferma la bontà del nostro percorso, con buona pace di chi non lo accetta.
La serie tv dell’anno è, a detta di molti, “The Young Pope” di Paolo Sorrentino. Secondo alcuni critici, una rappresentazione di come la fede e i valori laici abbiano ormai molti punti in comune, sia a livello individuale che sociale. L’avete guardata? Che opinione vi siete fatti in merito?
Ultimamente, a livello di serie tv, ho visto solo “Romanzo Criminale”. “The Young Pope” l’ha vista però Lemma (il nostro bassista), che l’ha definita impeccabile per costumi, attori, ambientazioni e ovviamente regia. Un lavoro meticoloso che rappresenta una fede sofferta nella vita di un uomo che fa i conti con le sue ferite e i suoi limiti. Lo stesso uomo che è a capo di una Chiesa per certi versi debole, composta appunto da uomini, ma che testimonia che è insieme anche di origine divina.
Sei anche un autore per Rizzoli, alla settima ristampa del libro “La strada del Sole”, in cui racconti il percorso che ha portato al cambiamento tuo e di tutta la band: che differenze ci sono fra la scrittura di canzoni e quella di un’opera narrativa?
Ho pieno rispetto sia per la creatività che per il tempo delle persone. Perciò se propongo di ascoltare o leggere qualcosa che porta il mio nome, che sia una canzone, una lettera o un libro, l’approccio non cambia. Ci deve essere un motivo profondo per comporre qualcosa, dev’essere qualcosa di autentico, ed è necessario farsi guidare da una ispirazione vera che necessita di determinate condizioni. Molti colleghi scrivono di mestiere, producono a prescindere. Io non sono in grado di farlo, è un mio limite. Le volte che ci ho provato non è uscito nulla di buono. Per questo posso metterci anche 3 anni a fare un album. Evidentemente questa scelta sembra funzionare meglio nell’opera narrativa che nella musica, visto che La strada del Sole è stato tradotto e pubblicato in 8 versioni (Spagna, Sud America, Portogallo, Francia, Belgio, Slovenia, Slovacchia, Croazia). I libri hanno ancora la forza della parola senza il peso dell’estetica e dell’immagine.
Siete originari di Thiene, in provincia di Vicenza. Il fatto di venire dalla Provincia ha influenzato la vostra formazione artistica e la vostra identità?
L’ha influenzata moltissimo. La tua domanda mi fa pensare a una cosa. Nel 2003, quando con la band (allora ci chiamavamo Sun Eats Hours) le cose stavano cominciando davvero a girare bene, mi trovavo spesso a Milano e cominciai a pensare di trasferirmi là, perché molte cose si sarebbero semplificate. E’ inutile girarci attorno: nel mondo della musica e in generale dello spettacolo essere a Milano o Roma fa una enorme differenza. Ora, però, sono felice di essere rimasto nell’alto vicentino, perché più viaggio e più trovo che tra città e provincia ci sia un divario, anzitutto di relazioni. La percezione del tempo, la prossimità, il cibo, la natura, il silenzio… differenze che io trovo a favore dei piccoli paesi. A parlare così mi par quasi d’essere Renato Pozzetto ne Il ragazzo di Campagna! Ma in fondo questo è ciò che ho visto.
In passato avete realizzato collaborazioni interessanti come quella con Federico Poggipollini: che artisti stimate e con quali vi piacerebbe collaborare oggi?
Federico è straordinario. Un talento impressionante, pregno di umiltà e semplicità. Stimo vari artisti italiani, molti purtroppo non ci sono più o non sono più sulla scena. Riguardo quelli in attività, apprezzo molto e seguo Niccolò Fabi; mi sento poi in comunione d’intenti con Filippo Neviani (Nek) e i Reale. Apprezzo anche Mannarino, parecchio.
Cosa avete in programma per il prossimo futuro?
Arriviamo da un 2016 pazzesco fatto di tournée in 5 Paesi, pubblicazioni, film, viaggi. Nel frattempo ci sono molti progetti in corso di sviluppo, ma il modo migliore per celebrare i 20 anni della band è continuare la bellissima tournée di Cuore Aperto per tutto il 2017.
The SUN – Biografia
I The Sun sono una rock band italiana, evoluzione artistica dei vicentini Sun Eats Hours, formatasi nel 1997 e composta da Francesco Lorenzi (autore, cantante e chitarrista), Riccardo Rossi (batterista), Matteo Reghelin (bassista), Gianluca Menegozzo (chitarrista). Prima ancora di siglare un accordo con la major discografica Sony Music, la band aveva già all’attivo quattro album autoprodotti e distribuiti in Europa, Giappone e Brasile da varie etichette indipendenti (in particolare da Rude Records) ed era stata supporter di band internazionali del calibro di The Cure, The Offspring, Misfits, Muse, Ok Go, NOFX, Ska P, Afi, Pennywise, The Vandals e, di recente, dei Deep Purple. E’ del 2004 il riconoscimento al M.E.I. come “miglior punk rock band italiana nel mondo”.
La scelta coraggiosa di comporre in italiano nonostante le prospettive internazionali risale al 2008, ed è conseguente ad una profonda crisi esistenziale vissuta a vari livelli dai membri della band dopo una tournée di oltre 100 concerti in 10 stati differenti tra il 2006 e il 2007.